domenica 27 aprile 2014

Roma ha quattro Papi, beati Roncalli e Woytila

La Chiesa ha due nuovi Santi, Roma ha quattro Papi. Nell’antica Basilica intitolata al primo dei successori di Cristo, il Pontefice che ha preso il nome del santo più vicino a Dio nella storia intera della Chiesa ha beatificato insieme al suo predecessore, l’unico che ha avuto il coraggio del “gran rifiuto” dopo Celestino V, Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II, le cui spoglie mortali riposano nella cripta sotto l’altare su cui le loro anime sono state beatificate.
Nella sua lunga storia bimillenaria, alla Chiesa cattolica è accaduto di avere due papi in contemporanea. Oggi ne ha avuti addirittura quattro. Angelo Roncalli, Karol Woytila, Joseph Ratzinger e Jorge Mario Bergoglio hanno riportato l’attenzione del mondo su quella Basilica, su quella città e su quella Chiesa da cui dai tempi di Cristo sono stati indirizzati le coscienze e lo spirito umano, pur con alterne fortune.
A giudicare dalla presenza di folla a San Pietro e nella piazza antistante i tempi della profezia di Nostradamus secondo cui quello attuale dovrebbe essere l’ultimo pontificato della storia sembrano assai lontani. Roma è tornata per un giorno caput mundi, capitale del mondo, nel nome di un potere che non ha più nulla forse di temporale ma che sembra mantenere intatto e più forte che mai tutto ciò che di spirituale gli hanno attribuito duemila anni di religione cristiana.
Per l’uomo che da un anno a questa parte ha scelto di chiamarsi Francesco e che a detta di molti sta facendo rivivere al mondo la predicazione del poverello d’Assisi primo a fregiarsi di quel nome, si tratta di un successo innegabile, l’ennesimo di una serie già lunga dopo solo un anno di pontificato. Bergoglio vescovo di Roma sta spazzando via quanto di medioevale e di fariseo aveva inquinato il messaggio cristiano attraverso i secoli e gli ultimi decenni in particolare. Può farlo perché parla il linguaggio di San Francesco con convinzione, ma anche perché segue ultimo in ordine di tempo la vicenda terrena di predecessori che al pari di lui forse hanno saputo rivitalizzare l’immaginario collettivo di chi guarda ancora al Vaticano come guida spirituale.
Giovanni XXIII è un ricordo di chi comincia ad avere una certa età. Quei bambini ai cui genitori raccomandò di portare loro a casa “la carezza del Papa” la sera dell’11 ottobre 1962, quella in cui si aprì lo storico Concilio Vaticano II che avrebbe cambiato la Chiesa per sempre, ormai sono cinquantenni o sessantenni. Che si ricordano perfettamente del Papa Buono e di come seppe mettere fine a Guerre Fredde e divisioni ataviche e odi religiosi millenari in soli cinque anni. Costringendo chiunque fosse venuto dopo di lui a proseguire sulla strada di un Vangelo ricondotto praticamente alle origini.
Giovanni Paolo II era il papa venuto “da un paese lontano”, che parlava male l’italiano e che pregò la folla di “correggerlo, se sbagliava”, la sera della sua elezione il 16 ottobre 1978. Quell’anno, un Papa era già morto disperato per non aver potuto salvare la vittima più illustre del terrorismo che insanguinava l’Italia, Paolo VI che se ne andò pochi mesi dopo Aldo Moro. Un altro invece era poi morto misteriosamente, dopo solo un mese di pontificato in cui aveva promesso di cambiare tutto, ma proprio tutto. Come i suoi predecessori di cui aveva preso il nome, Giovanni che aveva aperto il Concilio e Paolo che lo aveva chiuso. Woytila scelse di essere il secondo Giovanni Paolo, rendendo omaggio a tutti e tre i suoi maestri. Le sue prime parole furono “Non abbiate paura”, e un mondo che di paura ne aveva tanta in quel momento sentì di credergli.
Benedetto XVI, il papa teologo, era stato per Woytila quello che Paolo VI era stato per Giovanni XXIII, colui che dava sostanza ed organizzazione alle riforme. Ma sentendosi più vecchio di quanto le difficoltà della Chiesa moderna richiedessero di essere, aveva fatto ciò che i teologi più tradizionalisti avevano sempre escluso, poiché secondo dottrina “non ci si può sottrarre alla croce”. Ratzinger tuttavia conosceva le profezie non solo di Nostradamus, e non faticava a scorgervi un fondo di realismo, se la Chiesa avesse continuato sulla china degli ultimi tempi presto non ci sarebbe stata più una Chiesa, urbi et orbi.
Ecco allora il gran rifiuto, per consentire di dare al Vaticano una nuova guida più energica, prima del tempo che la Divina Provvidenza per chi crede o il semplice decorrere della vita terrena di ogni essere vivente gli avevano assegnato. Sempre per chi crede, è opinione comune che lo Spirito Santo orienti la scelta del Conclave chiamato ad eleggere il nuovo Vicario di Cristo, Successore di Pietro. Ecco quindi l’ora di Bergoglio, successore di Francesco, il frate che parlava anche con i lupi e viveva in povertà fra la gente comune come fosse la cosa più normale del mondo.

Abbiamo visto Roma senza Papa, o con due Papi in contemporanea. Non avevamo mai visto Roma con quattro Papi. Se ciò servirà a creare un mondo migliore, ai posteri – ed ai fedeli – l’ardua sentenza. Certo che se non ci riesce il messaggio di Papa Francesco e dei suoi beati predecessori, allora all’umanità restano ben poche speranze.

sabato 26 aprile 2014

Guernica

FIRENZE -  "È lei che ha fatto questo orrore?" chiese l'ambasciatore tedesco Otto Abetz. "No, è opera vostra" rispose Picasso. La scena era quella dell’Esposizione Mondiale di Parigi del 1937, per la precisione il padiglione spagnolo dove il grande pittore esponeva quella che era destinata a diventare probabilmente la sua opera più celebre.
Picasso era nato nel 1881 e si era trasferito a vivere nella capitale francese fin dal 1900. All’epoca dell’Expo era già famoso per essere il più grande pittore iberico e uno dei più grandi in assoluto della sua epoca, se non di sempre. Il governo repubblicano spagnolo gli chiese espressamente di decorare il suo padiglione parigino con un quadro che lui aveva dipinto in soli due mesi, sull’onda dell’emozione suscitata da un grave fatto di guerra successo nella sua patria.
Il 26 aprile 1937 la città di Guernica, nei Paesi Baschi spagnoli (Gernika Lumo è il nome originario in lingua basca) fu praticamente rasa al suolo dal bombardamento a tappeto condotto dagli aerei della cosiddetta Legione Condor, un distaccamento della Luftwaffe che Hitler aveva mandato in supporto dell’esercito golpista di Franco, che da un anno si era sollevato contro il legittimo governo repubblicano nelle mani del Fronte Popolare social-comunista vincitore alle elezioni del 1936.
La Condor era stata costituita ed inviata in Spagna espressamente per l’occasione. Con essa il dittatore nazista, a cui un Mussolini già formalmente suo alleato nel Patto Tripartito aveva affiancato apparecchi dell’Aviazione Legionaria Fascista d’Italia, aveva inteso cogliere al volo l’occasione irripetibile di “testare” sul campo di battaglia le tattiche ed il potenziale bellico della forza aerea germanica, in vista di un futuro non lontano conflitto generale.
L’esperimento, dal punto di vista tedesco, fu un successo totale. La città santa dei Baschi andò molto vicina ad essere cancellata dalla carta geografica. L’episodio destò scalpore e preoccupazione nell’opinione pubblica di tutto il mondo, perché dimostrò – almeno a chi aveva occhi e orecchie attente – le vere intenzioni della Germania nazista e la potenza devastante che essa era in grado di dispiegare sul piano militare, nonché la sua totale assenza di scrupoli nell’usarla. Fu anche il segnale più eclatante delle mutate sorti della guerra civile spagnola, poiché a partire dalla primavera di quel 1937 le truppe insurrezionaliste di Franco avrebbero preso lentamente ma inesorabilmente il sopravvento sui legittimisti.
Pablo Picasso era stato fortemente colpito dal bombardamento e dai suoi effetti, nonché dalla sorte della democrazia e della libertà nel suo paese. Il quadro fu terminato a tempo di record e – in ossequio alla volontà del governo repubblicano di Madrid dalla cui parte il pittore era chiaramente schierato – offerto al mondo in occasione dell’esposizione. Al termine della quale, secondo gli accordi, il dipinto doveva andare in Spagna. Ma Picasso, resosi conto che il governo frontista aveva i giorni contati, negò il suo assenso all’ultimo momento. Il quadro finì al Museum of Modern Arts di New York, dove rimase fino al 1981.
All’epoca in cui Guernica lasciò il MOMA per arrivare finalmente nella sua patria ideale, Pablo Picasso era morto da otto anni, Francisco Franco da sei, e da quattro anni Re Juan Carlos di Borbone aveva assunto la corona spagnola ristabilendo democrazia e libertà nella penisola iberica. Da allora il quadro si trova al Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofia di Madrid.
L’orrore a cui si riferiva l’ambasciatore nazista Abetz era quello del cubismo di Picasso applicato ad una rappresentazione allegorica e volutamente deformata del presepio. La madre stravolta con il neonato in braccio è contornata da un toro e da un cavallo, in luogo dei tradizionali bue ed asinello. Il toro rappresenta la brutalità, l’oscurità calante sulla Spagna ad opera delle armate delle tenebre scatenate dai dittatori trionfanti, l’orrore a cui invece si era riferito Picasso. Il cavallo, agonizzante al suolo, è il popolo spagnolo messo in ginocchio dalla devastazione causata da una guerra senza quartiere. Come tutte le guerre, pensava l’autore, ma in questo caso anche di più.
Picasso rimase coraggiosamente nella Parigi occupata dai nazisti per tutta la durata della guerra mondiale, ma ovviamente non poté fare ritorno nel suo paese per tutta la sua vita, perché il franchismo gli sopravvisse di due anni. La sua opera immortale invece gli sopravvive per l’eternità.

Nel corridoio che si trova davanti alla sala del Consiglio di Sicurezza dell’O.N.U. a New York si trova un arazzo che riproduce fedelmente il suo quadro più famoso. Guernica viene inquadrata alle spalle dei relatori ogni qual volta escono a fare dichiarazioni per la stampa. Unica eccezione, la votazione in occasione dell’intervento in Iraq nel 1991. All’atto di scatenare una guerra che metteva in campo la più ingente coalizione dai tempi della Seconda Guerra Mondiale non parve opportuno al Consiglio di Sicurezza che l’opera che incarna da 80 anni il simbolo del pacifismo facesse da sfondo all’avvio di Desert Storm. E l’arazzo fu coperto opportunamente con un panno blu.

venerdì 25 aprile 2014

Il 25 aprile spiegato ai più giovani

Coloro che non sanno ricordare il passato sono destinati a ripeterlo. E’ la frase celebre di Jorge Agustin Nicolàs Ruiz de Santayana y Borras (filosofo spagnolo considerato il padre putativo di molti celebri pensatori moderni tra cui lo stesso Bertrand Russell) che viene premessa spesso a quei documentari sulla Resistenza e la lotta partigiana che tornano di attualità (o dovrebbero farlo) tutti gli anni alla scadenza del 25 aprile.
In particolare, è molto bello e significativo quello dell’incontro tra un vecchio partigiano e alcuni ragazzi sui Lungarni a Firenze, durante il quale con poche semplici parole in “vernacolo” fiorentino l’anziano ex-combattente riesce a dare ai suoi giovani ascoltatori il senso di questa giornata, di quello che significò per chi aveva allora la loro età, di quello che dovrebbe significare in eterno. «Se vincevano loro (i nazifascisti, ndr), voi adesso non c‘eravate». E’ il succo e la sintesi di tutto. Altro in fondo non ci sarebbe da dire.
E invece ogni anno bisogna ritornarci sopra, con le stesse immagini e gli stessi discorsi, certi che l’anno prossimo saremo comunque punto e a capo. Non c’è un giorno in cui la nostra difficoltà intrinseca a diventare popolo si espliciti più del 25 aprile. Ogni paese ha la sua giornata simbolo: il 14 luglio la Presa della Bastiglia per i Francesi, il 4 luglio la Dichiarazione di Indipendenza per gli Americani, per dirne soltanto due. Il nostro, almeno nelle intenzioni di chi ci credeva consacrandolo di individuare il giorno in cui andammo più vicini a diventare una nazione finalmente libera, indipendente ed unita, è appunto il 25 aprile.
Sandro Pertini in comizio a Milano il 25 aprile
Nel ricordo di quella mattina del 1945 in cui il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia, nelle persone di Luigi Longo, Sandro Pertini e Leo Valiani, dette l’ordine ai partigiani dell’insurrezione finale a Milano, l’ultima città dove le SS tedesche ed i fascisti repubblichini resistevano ancora. In quelle stesse ore il comandante nazista Wolff trattava la resa con il Cardinale Schuster e gli angloamericani, e Mussolini cercava di fuggire verso il ridotto della Valtellina, dove avrebbe voluto organizzare l’ultima sua difesa, o trattare la sua fuga in Svizzera.
Ci vollero tre giorni, gli ultimi sanguinosi tre giorni di una lunga serie durata quasi due anni, affinché la situazione si risolvesse, la Germania di Hitler e la Repubblica di Salò di Mussolini deponessero definitivamente le armi, e il dittatore italiano finisse appeso al distributore di benzina di Piazzale Loreto assieme a Claretta Petacci ed agli ultimi gerarchi fedelissimi. Ma la data convenzionale è quella dell’insurrezione. Quindi sarà per sempre 25 aprile.
Ma come? La giornata che dovrebbe unirci è da sempre quella che più ci divide. Anche non considerando i tentativi di revisionismo storico operati dai nostalgici dei regimi totalitari che vennero sconfitti in quella lontana primavera, quando viene il momento per l’ANPI di rispolverare i gagliardetti delle Brigate Partigiane e portare di nuovo i reduci a riempire piazze e strade a testimoniare il loro coraggio e la loro vittoria ai più giovani, ecco che la classe politica e la società civile si dividono più che mai, da sempre. Due schieramenti contrapposti, chi ritiene di avere da sempre il monopolio della vittoria e quindi della sua celebrazione, chi ritiene invece di non dover festeggiare perché quella vittoria fu una questione esclusivamente comunista, e pertanto troppo politicizzata. Come se si trattasse, da ambo le parti, di andare o non andare alla festa dell’Unità.
Se le cose stanno così per i più vecchi, come si può spiegare ai giovani perché bisogna ogni anno tornare per strada a sfilare dietro ai loro nonni, quelli che ancora sono vivi almeno? Adesso che la maggior parte dei testimoni attori di quella lontana tragedia di Liberazione se ne sono andati, e che dei pochi che restano solo alcuni, come il vecchio partigiano dei Lungarni, sanno trovare le parole semplici per spiegare il senso di qualcosa così lontano nel tempo eppure così presente ancora nel nostro destino? Perché c’è poco da dire, «non eravamo tutti uguali, noi si combatteva per la libertà che non avevamo mai avuto, gli altri stavano con Hitler, quello se avesse vinto faceva pulito!». Come si fa a spiegare ai ragazzi che oggi hanno l’età che il vecchio partigiano aveva nel 1945 che di Hitler ce ne sono tanti in agguato, specialmente adesso che la crisi economica sta preparando loro il terreno, come negli anni 30 del secolo scorso?
E’ difficile trovare le parole per far capire ai più giovani il senso della storia. I giovani parlano un linguaggio più avanti anni luce del nostro. Chi scrive è nato 15 anni dopo la Seconda Guerra Mondiale. Ma si ricorda bene i racconti di nonni e nonne, padri e madri, zii e zie. Di come sapevano rendere in modo efficace l’immagine di quei giorni difficili, perché era stampata a fuoco nella loro memoria. Mio padre si arrabbiava molto quando vedeva noi ragazzi degli anni 70 che ci tiravamo la farina fuori di scuola a Carnevale, e mi spiegava che lui aveva dovuto attraversare le linee tedesche per andare a procurarsela insieme a mio nonno al mercato nero nelle campagne. Perché in città non c’era più nulla e si faceva la fame, e mia zia sua sorella aveva due anni e doveva mangiare.
Mio nonno mi raccontava dei mesi passati sul tetto, d’inverno, perché i repubblichini passavano tutti i giorni a rastrellare gli uomini adatti al lavoro per i Lager tedeschi oppure per il ricostituito Esercito del Duce. Mia madre, le mie zie raccontavano l’orrore (per chi era donna ancor più che per chi era uomo) dei giorni del passaggio del Fronte, le violenze subite dalle truppe coloniali, le rappresaglie tedesche e le distruzioni, il sollievo all’apparizione dei primi G.I. americani, che insieme alle sigarette ed alla cioccolata portavano finalmente la certezza che la vita non era solo arrivare alla mattina dopo, ma qualcosa che valeva la pena di essere vissuta e sarebbe stata vissuta anche negli anni a venire.
Oggi leggere non è più di moda. E allora è forse inutile consigliare ai ragazzi la letteratura sulla Resistenza, dalla Guerra Partigiana di Giorgio Bocca all’Anno sull’altipiano di Emilio Lussu, ai resoconti dal Braccio della Morte di Sandro Pertini da Regina Coeli o di Indro Montanelli da San Vittore. O film come la Ciociara di Sophia Loren o Tutti a Casa di Alberto Sordi, perché non è un cinema fatto di effetti speciali. La scuola poi, oltre a essere vittima di programmi sempre più distratti e inadeguati, non ha più soldi né per le gite né per le semplici uscite di una mattina, e allora l’eventualità che i nostri ragazzi possano essere portati in luoghi come Auschwitz, la Risiera di San Sabba o Sant’Anna di Stazzema è ridotta al lumicino.
In un mondo in cui siamo sempre più numerosi, e sempre più portati a percepire non solo l’altro ma anche il vicino di casa come un fastidio, un ostacolo, un pericolo, mentre riprendono piede e rialzano la testa ideologie e comportamenti ispirati a chi 70 anni fa stava dall’altra parte, sono sempre meno quindi le risorse a disposizione di chi vuole far sì che la Storia per una volta sia davvero maestra di vita, e che non si ripetano errori ed orrori del passato.
La speranza è tenue. Ogni anno per la Giornata della Memoria si deve constatare quanti e quali sono stati e sono i popoli a cui è toccato e tocca in sorte l’Olocausto, dopo quello ebraico. Ogni anno per il 25 aprile si deve registrare come la Giornata dell’Unità Nazionale se ne scivola via tra l’indifferenza, l’ostilità perfino, non solo di chi sta seduto in un comodo scranno parlamentare e parla perché tanto sa che l’immunità gli permette di dire qualsiasi sciocchezza, ma anche di chi sta attraversando un momento difficile, economicamente e moralmente, e non riesce a capire in che modo eventi accaduti quasi 70 anni fa dovrebbero interessarlo più della crisi spaventosa che stiamo attraversando. E il punto è proprio qui. Tout se tient, tutto è legato. Ma pochi ormai hanno voglia e sono in grado di spiegare perché. Meglio adagiarsi nell’ignoranza e cavalcare le tigri che stanno affilando gli artigli.
Queste righe sono le stesse che si potevano scrivere un anno fa, e, se la situazione non peggiora ulteriormente, le stesse che si potranno scrivere tra un anno. Il rischio che lascino il tempo che trovano del resto è insito nel mestiere di giornalista. Tacere comunque sarebbe già una sconfitta. Tanto più che nuovi venti di censura e nuove aspirazioni autoritarie ricominciano a soffiare.
E allora, si ritorna sempre a Santayana. Si può ignorare o dimenticare il passato, ma allora è bene prepararsi a riviverlo. La memoria storica è un esercizio difficile, ma necessario. Non tutti quelli che ci spiegano perché le forze politiche e le autorità istituzionali attuali hanno reso prive di significato le celebrazioni del 25 aprile vogliono farci necessariamente del male. Come non tutti quelli che saltano loro addosso indignati dicendo che la Festa della Liberazione non si tocca ci vogliono bene, o ci dicono la verità.

All’anno prossimo. 

giovedì 24 aprile 2014

Verità sulle stragi, Matteo Renzi abolisce il segreto di stato

Il Santo Padre ammette alla somministrazione dei sacramenti anche i divorziati, e prosegue nella sua “rivisitazione” del cattolicesimo tridentino. Segue a ruota il Presidente del Consiglio che addirittura toglie la classificazione del segreto di stato sulle grandi stragi italiane del Ventesimo Secolo, una specie di “terzo mistero di Fatima” che ha vanificato finora più o meno pretestuosamente qualsiasi serio tentativo di indagine della magistratura teso a far luce sulla vera storia del nostro paese negli anni di piombo e anche oltre.
Con la direttiva firmata il 22 aprile a Palazzo Chigi da Matteo Renzi, scompaiono dalla storia e dalla cronaca d’Italia gli omissis. Quella parola oscura e un po’ sinistra, come un maleficio tratto da Harry Potter, che incontravamo sempre ad un certo punto della nostra ricostruzione da cittadini o da addetti ai lavori delle pagine più tragiche di quella che Sergio Zavoli definì sinteticamente e brillantemente come la Notte della Repubblica. Una parola tratta dal latino che significa in sintesi “testo cancellato, secretato per decreto del governo e quindi tralasciato, non divulgato”, ma che in pratica si poteva tradurre con l’inglese moderno “off limits, divieto di accesso”, un po’ come nelle aree militari. Chi oltrepassa questo limite avrà una risposta armata.
Matteo Renzi definisce questo suo atto di rilevanza storica come un “dovere nei confronti dei cittadini e dei familiari delle vittime di episodi che restano una macchia oscura nella nostra memoria comune”. Una sorta di parafrasi del “un piccolo passo per me, un grande passo per l’umanità” di armstronghiana memoria, che sembra quasi in tono minore, inadeguato rispetto alla portata dell’evento.
In realtà l’atto di Renzi e le sue dichiarazioni si pongono in linea con tutti gli altri di un governo che sta assestando colpi forse decisivi a tutti i livelli ad uno status quo che sembrava immutabile (e che ci avrebbe sicuramente accompagnato alla tomba, individualmente e come società civile), e che tra l’altro cerca sistematicamente di far apparire come semplici e scontate azioni che in realtà sono rivoluzionarie. Una specie di uovo di colombo applicato all’economia ed alla politica, ma Colombo – si sa – è passato alla storia per aver compiuto quasi con nonchalance un’impresa giudicata impossibile fin dagli albori dell’umanità.
La direttiva di Renzi in sostanza anticipa la rimozione del segreto di stato apposto dalla normativa previgente ai documenti concernenti determinati fatti riguardanti l’ordine pubblico e interessanti la sicurezza nazionale (il motivo del “segreto” e degli omissis con cui tale segreto veniva mantenuto sui relativi documenti). In virtù di questa “pubblicazione”, che salvo diversa disposizione era proibita per almeno 40 anni a decorrere dai fatti, è consentito adesso il “versamento” della documentazione agli archivi di stato, oltre che – finalmente - ad ogni autorità inquirente che ne faccia domanda.
Gli episodi relativamente ai quali il governo ha dichiarato decaduto il segreto sono altrettante pietre miliari a rovescio della nostra storia repubblicana. Eccoli qua:
Piazza Fontana (1969), 17 morti e 88 feriti a causa della bomba esplosa alla sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura, comunemente ritenuto l’inizio ufficiale della strategia della tensione e dei successivi anni di piombo, a cui si legano una serie di fatti mai del tutto chiariti come la morte del primo indiziato, l’anarchico Giuseppe Pinelli, e l’omicidio del commissario di polizia Luigi Calabresi, identificato dai gruppi extraparlamentari di sinistra come il responsabile della morte di Pinelli
Gioia Tauro (1970), 6 morti e 66 feriti nell’attentato dinamitardo al treno Palermo-Torino, in concomitanza con la rivolta di Reggio Calabria per l’assegnazione del capoluogo regionale in attuazione dell’istituzione della Regione
Peteano (1972), subito dopo l’assassinio del commissario Calabresi – ascritto alla responsabilità di gruppi di sinistra – la risposta neofascista nella logica degli opposti estremismi fu l’attentato in cui persero la vita tre carabinieri e rimasero gravemente feriti altri due nell’esplosione di una cinquecento imbottita d’esplosivo a Peteano, frazione tra Sagrado e Savogna d’Isonzo, a 5 km da Gorizia
Questura di Milano (1973), esattamente un anno dopo l’omicidio del commissario Calabresi, 4 morti e 52 feriti per l’esplosione di un ordigno davanti alla Questura del capoluogo lombardo, mentre si scopriva un busto commemorativo del commissario
Italicus (1974), 12 morti e 48 feriti nell’esplosione della bomba sulla carrozza n. 5 dell’espresso Roma-Monaco di Baviera all’altezza della stazione San Benedetto Val di Sambro, subito fuori della grande galleria dell’Appennino, all’interno della quale si calcolò che i morti sarebbero stati molti di più
Piazza della Loggia (1974), 8 morti e 102 feriti in seguito all’esplosione di una bomba collocata in un cestino portarifiuti in Piazza della Loggia nel centro di Brescia, durante una manifestazione antifascista
Ustica (1980), 81 morti nell’esplosione sui cieli di Ustica del DC9 Itavia decollato da Palermo e diretto a Bologna, probabilmente in seguito all’impatto con un missile lanciato da aviogetti militari di nazionalità non meglio precisata
Stazione di Bologna (1980), 85 morti e 218 feriti, il tributo di sangue più alto che ne fa l’evento legato al terrorismo più tragico in assoluto della storia d’Italia, l’orologio della stazione per volontà della cittadinanza bolognese resterà fermo per sempre all’ora della strage, le 10,25 del mattino
Rapido 904 (1984), la riedizione della strage dell’Italicus il 23 dicembre 1984 – da qui il nome di strage di Natale – nello stesso punto di dieci anni prima, ma stavolta i terroristi attesero che il treno fosse entrato in galleria, risultato 17 morti e 267 feriti. E’ comunemente ricordato come l’ultimo atto della guerra dei terrorismi che ha insanguinato l’Italia per quindici anni, almeno a livello di stragi di massa.

Adesso chi vuol fare luce e accertare la verità ha la strada teoricamente assai più spianata che in passato. Sicuramente non più interrotta dal filo spinato. Come tutte le iniziative di Renzi anche questa è destinata certo a dividere in due l’opinione pubblica, e quasi sempre sulla base di pregiudizi pro o contro. Una cosa però è certa, se di propaganda si tratta Matteo Renzi è uno che sa parlare la lingua che il popolo italiano in questo momento vuol sentir parlare.

lunedì 21 aprile 2014

Addio Hurricane, campione del mondo di libertà

TORONTO (Canada) - Un giorno avrebbe potuto diventare il campione del mondo. Terminava così il ritornello di una delle più celebri canzoni di Bob Dylan, Hurricane, la ballata che il cantautore statunitense dedicò a metà degli anni settanta a colui che era diventato un’icona della battaglia per i diritti civili delle minoranze di colore in America, al pari di Mohamed Alì, Malcom X, Martin Luther King.
Rubin Carter, soprannominato Hurricane all’epoca in cui i suoi pugni devastanti ne avevano fatto uno dei principali pretendenti alla corona mondiale dei pesi medi nella Boxe, è morto il giorno di Pasqua nella sua casa di Toronto all’età di 76 anni, dopo aver combattuto l’ultima battaglia di una vita che di battaglie è stata piena contro il cancro alla prostata.
All’epoca in cui Dylan gli dedicò la sua chilometrica e suggestiva ballata, Carter era già in galera da quasi 10 anni, accusato ingiustamente dell’omicidio di tre persone e del ferimento di una quarta nel Lafayette Bar and Grill di Patterson , New Jersey. La storia è nota a chiunque abbia ascoltato la canzone, o visto il film che Denzel Washington ricavò nel 1999 dalle memorie del pugile scritte in carcere, The Sixteenth Round - from Number 1 contender to number 45472, e dagli atti della sua lunga lotta legale per ottenere il riconoscimento dell’innocenza propria e del ragazzo che la notte della strage era con lui, John Artis, che l’aveva avvicinato per avere un autografo o poco più e non poteva immaginare che ne avrebbe avuta la vita segnata al pari del suo idolo.
Carter era un ragazzo cresciuto nel ghetto di Patterson. Infanzia difficile come quella di tanti bambini neri, anche negli Stati del Nord. Riformatorio, fuga, arruolamento nell’esercito, congedo, di nuovo carcere, poi la scoperta della Boxe come mezzo di riscatto e l’ascesa nel ranking mondiale di WBA e WBC. Nei primi anni sessanta Hurricane era ad un passo dal titolo, che gli fu soffiato da un verdetto (contestatissimo da pubblico ed addetti ai lavori) di sconfitta ai punti contro Joey Giardiello. Aveva strapazzato poi quell’Emile Griffith che sarebbe poi stato il durissimo avversario contro cui il nostro Nino Benvenuti avrebbe conquistato il titolo nel 1967, quando ormai lui languiva in una cella da più di un anno.
Il 17 giugno 1966, circa un anno e mezzo dopo che i neri d’America avevano perso il primo dei loro leader, Malcolm X assassinato durante un discorso pubblico a Manhattan, non molto lontano da lì nella natia Patterson fu la volta di Rubin Carter di andare incontro al proprio destino. La sparatoria nel Lafayette che alcuni testimoni indicarono opera di due neri subito dopo in fuga su una macchina simile a quella su cui da un’altra parte della città stava tornando a casa Carter, fu l’occasione che poliziotti corrotti e istigati dall’odio razziale aspettavano da tempo, per trasformare il destino di gloria del indomabile e indocile pretendente al titolo mondiale in un destino infame da pluriomicida galeotto a vita.
Alfred Bello e Arthur Dexter Bradley, due delinquenti incastrati e manovrati dalla polizia, diventarono i testimoni chiave di un processo segnato fin dall’inizio, malgrado l’unico superstite della strage, con l’unico occhio buono rimastogli, avesse indicato chiaramente che Carter ed Artis non erano gli assassini. L’unica fortuna di Hurricane fu che nello stato di New York non esistesse la pena di morte, così ricevette ben tre condanne a vita, tante quante erano le vittime del Lafayette.
A nulla valse la mobilitazione dell’opinione pubblica, istigata da star dello spettacolo e dello sport che presero le parti di Carter, in un’epoca in cui le lotte per i diritti civili stavano progressivamente travolgendo un paese in cui ci si cominciava a chiedere se il vero nemico fosse il vietcong che i ragazzi americani andavano a combattere al di là del Pacifico, o non piuttosto qualcuno che stava lì a casa loro, ben protetto dalle istituzioni. Nel 1976, all’epoca del successo mondiale di una canzone – quella di Dylan – che diventò un cult per una generazione, Martin Luther King era stato ucciso da otto anni, Angela Davis e le Black Panthers avevano concluso la loro epopea rivoluzionaria da almeno cinque, stroncati dall’F.B.I. e da processi non sempre più equi di quello subito da Rubin Carter. E lo stesso Rubin si era visto condannare una seconda volta nella ripetizione del processo ottenuta invano dai suoi avvocati.
Perfino Mohamed Alì, che al pari di lui non si era fatto mai scrupolo di sfidare autorità ed istituzioni americane ad ogni livello, gli aveva dedicato pubblicamente una delle sue ultime vittoriose difese del titolo dei massimi, quella contro Ron Lyle. Tutto inutile, per l’ex ragazzo del ghetto di Patterson i giorni in cui doveva lottare per non perdere la ragione e la propria libertà interiore chiuso in una cella si susseguivano uno dopo l’altro, con l’unica prospettiva di durare quanto la sua vita.
La polizia controllava chiunque rimettesse mano agli atti del processo in cerca di nuove prove o per rivalutare quelle disattese tra il 1966 ed il 1976. Testimoni furono intimidati e costretti a ritrattare o a farsi da parte. Finché un altro ragazzino proveniente da uno dei tanti ghetti neri d’America riuscì a stabilire prima un rapporto epistolare e poi un’amicizia con lo sfortunato campione di cui aveva letto le memorie. E grazie agli amici canadesi che stavano aiutando lui stesso a studiare e ad uscire dal ghetto fornì a Carter quell’assistenza legale che finora gli era mancata.
Nel 1985 finalmente il giudice Haddon Lee Sarokin della Suprema Corte Federale dello stato di New York ebbe il coraggio di dichiarare iniqui e annullati i processi subiti da Carter, rimettendolo in libertà. John Artis era già stato scarcerato sulla parola nel 1981, in quanto imputato minore. Carter dovette attendere il 1988 finché la Pubblica Accusa di New York non gettò definitivamente la spugna rinunciando ad un terzo processo palesemente infondato, impopolare, e che sarebbe arrivato perfino dopo un pronunciamento della Suprema Corte Federale degli Stati Uniti favorevole sostanzialmente all’imputato.
Rubin Carter negli ultimi anni di vita
Rubin Hurricane Carter si traferì allora a vivere in quel Canada da cui gli era arrivato l’aiuto insperato quando sembrava ormai che la sua sorte fosse segnata e la sua vita rovinata per sempre. A Toronto, si impiegò attivamente nell’Associazione per la Difesa dei Condannati per Errore. Non potendo riavere indietro i vent’anni di vita trascorsi ingiustamente in carcere, trovò ragione di vita nell’evitare che altri dopo di lui conoscessero lo stesso inferno.
Nel 1993 la World Boxing Council (WBC), fatto unico nella storia della Boxe, gli conferì ad honorem la corona mondiale dei pesi medi, riconoscendo la fondatezza delle sue pretese sportive che erano state spazzate via la notte del Lafayette. Nino Benvenuti ha raccontato come senza Carter da affrontare la sua e l’ascesa al titolo di altri sia risultata oggettivamente molto più semplice. Hurricane ha avuto fama e successo coronando tuttavia nell’arco della sua vita tribolata un’impresa molto più grande della conquista di un titolo sportivo, per quanto prestigioso. La sua figura ricopre un posto nella storia civile d’America praticamente pari a quello di Mohamed Alì, il più grande.

Ma per quelli che erano ragazzi quando Bob Dylan compose la sua celebre canzone c’è un ritornello che ricorre nella testa, e toglie in fondo significato a tutto il resto, anche adesso che Carter ha finalmente trovato riposo. Un giorno avrebbe potuto essere il campione del mondo.

Common sense (Senso comune)

19 agosto 2011

Diceva Thomas Paine che “il governo, nella migliore ipotesi, non è che un male necessario; nella peggiore, un male intollerabile."
Singolare figura quella di Tom Paine. Durante la Rivoluzione Americana, a cui prese parte attiva combattendo nella Milizia Continentale di George Washington, fu l’ideologo dei ribelli contro l’Inghilterra. Con i suoi scritti dette forma organizzata e chiara al pensiero degli americani che non volevano più pagare le tasse ad un re lontano e dispotico, che le pretendeva in spregio al principio, valido in Madrepatria ma non nelle Colonie, del “no taxation without rappresentation”. Niente tasse, se non decise da un parlamento eletto liberamente dal popolo.
Tom Paine era un radicale, per i suoi tempi. Le sue idee erano viste come estreme, perfino dai più accesi rivoluzionari francesi. Dopo la vittoria definitiva sugli inglesi a Yorktown infatti, nonostante egli fosse un glorioso veterano della Rivoluzione, il nuovo governo americano di Washington e Adams, desideroso di normalizzazione cosiddetta "borghese", gli rese la vita difficile spingendolo ad emigrare in Francia, dove nel frattempo il popolo aveva dato l’assalto alla Bastiglia. Ma i Giacobini alla lunga non trattarono l'anticonformista americano meglio di quanto avessero fatto i suoi compatrioti, e solo la caduta di Robespierre lo salvò da un destino molto triste.
Quest’uomo era membro di società rispettabili come la Constitutional, che si richiamava alla Rivoluzione Inglese del 1688, la “Gloriosa” rivoluzione liberale che aveva posto fine per sempre all’assolutismo nell’isola. I suoi scritti avevano titoli rassicuranti:  i “Diritti dell’Uomo”, “L’Età della Ragione”, “Senso Comune”. E tuttavia perfino i più arrabbiati Giacobini si spaventavano di fronte alle sue posizioni politiche e religiose. Del Governo, appunto, parlava come di un male che andava dal “necessario” all’ “intollerabile”. Di Re e nobili parlava come di usurpatori dei diritti naturali dei propri simili. Della religione parlava come di una mistificazione inutile, se non a coloro a cui dava potere: "la parola di Dio è la creazione che guardiamo, Dio stesso è verità morale e non mistero o oscurità. Nostro compito è compiere la giustizia, amare la misericordia e cercare di rendere felici i nostri simili".
Parole che all’epoca spaventavano un mondo che lottava per uscire dall’arbitrio per “diritto divino”, e che oggi  invece sono il “senso comune” di ogni persona e ogni popolo che si ispira, o pretende di ispirarsi, alle grandi rivoluzioni anglosassoni e francesi. O almeno dovrebbero esserlo.
Ci sono paesi, infatti, che sono rimasti al di fuori delle grandi Riforme religiose e delle grandi Rivoluzioni politiche. L’Italia, ci piaccia o no, è uno di questi. Ancor oggi, in questi paesi, uno come Tom Paine rischierebbe di essere bruciato o ghigliottinato per predicare pubblicamente idee come quelle sopra dette. O forse, ci penserebbero la Mafia, o qualche "servizio" più o meno deviato, a farlo sparire in silenzio.
Qui il Governo, che sia o meno rappresentativo, può mettere in testa al popolo tutte le tasse che vuole. Dai tempi di Franceschiello di Borbone, non c’è più stata in Italia nemmeno una rivolta del pane. I terroristi erano stipendiati del Ministero dell’Interno. La gente si incavola saltuariamente e realmente soltanto quando la squadra di calcio del cuore subisce dei torti, o se ci sono problemi lungo la strada che porta al mare. Nient’altro ci tocca. Ogni italiano si sente più furbo dei suoi concittadini, altro che diritti naturali comuni.
Qui il Governo può mentire spudoratamente, il singolo parlamentare non si sente minimamente vincolato dalle promesse fatte al suo collegio elettorale. E’ visto come segno di furbizia e di grandi capacità politiche. Si prendono in giro gli americani perché hanno silurato Clinton, a sua volta considerato uno che non ha saputo gestire le sue “storielle”. E non si capisce perché una bugia come la sua, se detta a Washington porti a una sfiducia complessiva, se detta a Roma invece, come ai tempi di Mussolini, porti a una strizzatina d’occhi, a una gomitata nelle costole, e a battute più o meno grevi. Abbiamo un Presidente del Consiglio che avrebbe fatto atterrire Monica Lewinsky. E una ex consorte dello stesso che merita forse anche più considerazione della signora Clinton, non foss’altro per il coraggio. Ma il punto della questione ci sfugge, e ci sfuggerà sempre: chi mente una volta e su una questione, lo farà di nuovo e anche su altre, più importanti. Ma a noi che ci frega……nel nostro piccolo non è quello che facciamo tutti i giorni?
Oriana Fallaci detestava Alberto Sordi, il nostro più grande attore, proprio per la sua bravura nel dare vita perfettamente all’italiano medio in tutte le sue sfaccettature, tutte ugualmente odiose.
Negli Stati Uniti, le rivoluzioni le fanno i Roosevelt e i Kennedy. In Italia le fanno (o fanno finta di farle) i Mussolini e i Berlusconi.
Ma non è tutto. Qui da noi Tom Paine poteva sperare di sopravvivere ai Partiti, di destra e di sinistra, alle Mafie, alle P2, P3 e P4, perfino ai tifosi inferociti di Roma e Lazio, Juve e Inter. Ma non sarebbe mai sopravvissuto alla Chiesa Cattolica. Non ce l’ha mai fatta nessuno. Non qui.
Qui una Chiesa altrettanto al passo con i tempi e utile al benessere dei cittadini quanto lo è quella degli Ayatollah iraniani da Khomeini in poi, può pensare di prosperare all’infinito.
Di tutti i periodi storici che mi affascinavano quando studiavo, quello seguente alla Presa di Porta Pia è uno dei più incredibili. Il coraggio di quella classe politica contemporanea di Cavour e Garibaldi, che chiuse il Papa nelle Mura Vaticane e rimase sorda a qualsiasi invocazione o “fatwa” proveniente da Castel Sant’Angelo o dalle sedi delle tante – anche allora – organizzazioni cattoliche che boicottavano la vita politica nazionale, fu sicuramente degno di ammirazione. Purtroppo durò poco e fu proprio il Fascismo, nonostante la sua retorica patria, a dare ad una borghesia ignorante e incapace fin da allora a curare anche soltanto i propri interessi il sostegno interessato dell’unica organizzazione che in Italia funzionava e funziona bene da sempre, quella ecclesiastica.
Il Vaticano ringrazia, da allora, e dice sempre la sua su ogni cosa, tranne quando si tratta di dare veramente una parola o di fare un gesto di conforto a chi soffre davvero su questa terra, per disgrazie occasionali o croniche. Dio ne guardi dal versare un Euro, o prima ancora una Lira, per dare il proprio sostegno a singoli o comunità in difficoltà. Con le tasse derivanti soltanto dalle proprietà immobiliari nella singola Roma io credo che si farebbero quattro o cinque manovre come quelle di Tremonti. Che non sa chi gli paga l’affitto di casa propria, poveraccio, ma sa benissimo quanto rendono gli affitti riscossi dal più grande padrone di casa della Capitale e del Mondo: il Papa.
Povero Tom Paine, sopravvissuto alle Giubbe Rosse di Cornwallis e ai Giacobini di Robespierre…. Qui sarebbe bastato un Formigoni o un D'Alema a ridurti al silenzio. Gli italiani di giornali ne leggono pochi, ma la voce del padrone la sentono, eccome.
Se cade Berlusconi, è soltanto perché qualche "potere forte" nel suo palazzo ne ha già individuato il suo successore. E il Papa l’I.C.I. non la pagherà mai. Per gli italiani, in compenso, è più divertente occuparsi di Calciomercato. Altrettanto inutile, ma sicuramente più divertente. E poi è Ferragosto….
Common Sense……

Leggi di fisica felina


LEGGE DELLA MICIO INERZIA 

un gatto a riposo tende a rimanere a riposo, nonostante l'azione di una forza contraria - come l'apertura di una scatoletta di cibo per gatti 



LEGGE DEL MICIO MOVIMENTO 
un gatto si muoverà in linea retta, a meno che non ci sia un buon motivo per cambiare direzione 



LEGGE DEL MICIO MAGNETISMO 
tutte le giacche blu e i maglioni neri attraggono i peli del gatto in maniera direttamente proporzionale all'intensità del loro colore 



LEGGE DELLA MICIO TERMODINAMICA 
il calore fluisce da un corpo caldo ad uno freddo, eccetto nel caso del gatto, tutto il calore fluisce nel gatto 



LEGGE DEL MICIO STIRAMENTO 
un gatto si stiracchierà arrivando ad una lunghezza direttamente proporzionale a quella del pisolino che ha appena fatto 



LEGGE DEL MICIO SONNO 
tutti i gatti devono dormire con le persone ogni qualvolta ciò sia possibile, in una posizione che sia tanto scomoda per le persone coinvolte, quanto comoda al massimo per loro 



LEGGE DEL MICIO ALLUNGAMENTO 
un gatto può fare in modo che il suo corpo si allunghi abbastanza da raggiungere ogni angolo, se ciò che si trova lo interessa almeno un po' 



LEGGE DELLA MICIO ACCELERAZIONE 
un gatto può accelerare ad un ritmo costante, fino al momento in cui non si sente bene e pronto a fermarsi 



LEGGE DELLA PRESENZA A TAVOLA 
i gatti devono essere presenti a tutti i pasti quando in tavola c'è qualcosa di buono 



LEGGE DELLA CONFIGURAZIONE DEI TAPPETI 
nessun tappeto può rimanere integro e morbido molto a lungo 



LEGGE DELLA RESISTENZA ALL'OBBEDIENZA 
la resistenza di un gatto varia in proporzione al desiderio di un umano che esso faccia qualcosa 



PRIMA LEGGE DELLA CONSERVAZIONE DELL'ENERGIA 
i gatti sanno che l'energia non può essere ne creata ne distrutta, e quindi ne usano la minor quantità possibile 



SECONDA LEGGE DELLA CONSERVAZIONE DELL'ENERGIA 
i gatti sanno anche che l'energia può essere immagazzinata, facendo un sacco di pisolini 



LEGGE DELL'OSSERVAZIONE DEL FRIGORIFERO 
se un gatto osserva un frigorifero abbastanza a lungo, qualcuno primo o poi arriverà e tirerà fuori qualcosa di buono da mangiare 



LEGGE DELL'ATTRAZIONE VERSO LA COPERTA ELETTRICA 
accendete una coperta elettrica ed un gatto piomberà nel vostro letto alla velocità della luce



LEGGE DELLA RICERCA DEL COMFORT 
un gatto cerca sempre, e di solito trova, il posticino più confortevole di una stanza 



LEGGE DELL'OCCUPAZIONE DI BORSE E SCATOLE 
tutte le scatole e le borse presenti in una stanza devono contenere un gatto, entro il tempo massimo di nanosecondo 



LEGGE DEL CONSUMO DEL LATTE 
un gatto può bere l'equivalente del suo peso in latte, solo per dimostrarvi che è in grado di farlo 



LEGGE DELLA SOSTITUZIONE DEI MOBILI 
il desiderio di un gatto di farsi le unghie sui mobili è direttamente proporzionale al costo dei mobili stessi 



LEGGE DEL MICIO ATTERRAGGIO 
un gatto atterrerà sempre nel posto più soffice a sua disposizione 



LEGGE DELLO SPOSTAMENTO DI FLUIDI 
un gatto immerso nel latte riceverà una spinta dal basso verso l'alto pari al volume del liquido spostato, meno la quantità di latte che ha bevuto 



LEGGE DEL MICIO DISINTERESSE 
il livello di interesse in un gatto può variare in modo inversamente proporzionale allo sforzo che un umano fa per tentare di destarlo 



LEGGE DEL RIFIUTO DELLA PILLOLA 
ogni pillola data ad un gatto ha l'energia potenziale per raggiungere la velocità di fuga 



LEGGE DELLA MICIO COMPOSIZIONE 
un gatto è composto di Materia+AntiMateria+Menefreghismo 



LEGGE DELL'ASCOLTO SELETTIVO 
nonostante un gatto possa sentire il rumore di una scatoletta di tonno aperta ad un chilometro di distanza, può non sentire una voce che gli parla a tre passi di distanza 



LEGGE DELLA SEPARAZIONE EQUIDISTANTE 
tutti i gatti presenti in una stanza si posizioneranno in punti equidistanti tra loro, ed equidistanti dal centro della stanza 



LEGGE DELLA MICIO INVISIBILITA' 
i gatti pensano che se loro non ti possono vedere, tu non possa vedere loro 



LEGGE DEL CONTINUUM SPAZIO-TEMPORALE 
dandogli tempo a sufficienza, un gatto atterrerà in quasi ogni luogo 



LEGGE DELLA CONCENTRAZIONE DELLA MASSA 
la massa di un gatto aumenta in modo direttamente proporzionale al comfort che prova nello stare in braccio 



LEGGE DELLE MICIO PROBABILITA' 
non è possibile prevedere dove in realtà si trova un gatto, esiste solo la probabilità di sapere dove "dovrebbe" essere 



LEGGE DELLA MICIO OBBEDIENZA 
non è ancora stata scoperta

Joyce Mario

domenica 20 aprile 2014

Ljiuba

17 novembre 2011

Quando tornavo a casa la sera, era sempre lei quella che trovavo ad aspettarmi sul muretto vicino al cancello. Il "principe" veniva dopo, con calma, a passo lento, come si confà ad un nobile, appunto. Il "piccolo", l'ultimo arrivato, aspettava in casa, troppo attaccato alla sua nuova casa e alla sua nuova famiglia, o troppo freddoloso o troppo occupato a giocare.
Lei no. Lei mi aspettava fuori, sfidando anche il freddo. Per essere la prima a venire a strusciarsi sulle mie gambe, o a protestare per il ritardo nell'ora della cena.
Il gatto è un fenomeno su cui hanno scritto in tanti, ma di cui nessuno ha saputo ancora dare una spiegazione esauriente. E' l'animale che più è riuscito a legare a sé l'uomo, insieme al cane. Ma a differenza del cane, c'é riuscito senza fare niente, con la sua sola presenza. Quando un cane ti da il suo affetto, lo fa in modo plateale, quasi scontato, verrebbe da dire. Il gatto no. Se decide di "adottarti", di volerti bene, te lo fa sentire come una concessione speciale, un dono della vita. Stabilire un rapporto affettivo con un gatto è altrettanto difficile e gratificante che stabilire un legame con la compagna o il compagno della propria vita.
Lei era così. Per il solo fatto di esserci, riempiva la casa e l'esistenza. Ora che non c'é, capisco quanto la vita sia capace di colpirti là dove fa più male, con precisione assoluta.
Quando lei è arrivata, avevo già perso 4 gatti in 4 anni. Poi uno deve credere a dio....... D'accordo, ci sono tragedie ben più gravi al mondo, non voglio mettermi a discutere. Per chi ama questi animali, perderne anche uno soltanto è una tragedia, è LA tragedia. Chi non li ama non può capire, e perdere tempo a discuterci non mi interessa. MioFrittellaPennyFlo, il Bianchino...ce li ho tutti nel cuore. Che adesso sanguina perché anche lei non sta tornando a casa. E forse non lo farà più.
Quando la prendemmo dal veterinario, aveva due mesi. la sua vita era cominciata dal lato sbagliato. Tolta alla mamma subito, con una malattia agli occhi che aveva opacizzato la sua cornea e ridotto la sua vista (rendendo però il suo sguardo unico, tenero, bellissimo e struggente), aveva passato i suoi primi due mesi circa in una gabbia sospesa da terra e con delle sbarre discontinue per fondo. La portammo a casa e per tutto il rpimo giorno non riuscì quasi a camminare, poiché era la prima volta che le sue zampine poggiavano su un pavimento solido. Poi prese coraggio, e divenne uno spettacolo. Giocherellona, pretendeva di coinvolgere il "principe" (dieci anni più di lei e una flemma "british"....) nei suoi momenti ludici irruenti. E questo se ne andava borbottando in lingua felina. Poi era arrivato il "piccolo", ed aveva finalmente trovato un compagno di giochi anche troppo perfetto, erano come Red e Toby. A volte era lei a ritirarsi esausta, perché il piccolo non sapeva mai quando era ora di smettere o non era il momento.
Affettuosa, mi aveva "scelto" come mamma. nei momenti in cui aveva bisogno di tenerezza, mi si attaccava al braccio, nell'incavo del gomito, e pretendeva di "poppare" come se si attaccasse alla pancia della mamma che non aveva avuto.
L'avevamo chiamata Ljiuba, che in lingua slava significa "amata". E questo dice tutto.
Gli altri due gatti ci guardano adesso come se chiedessero a noi spiegazioni, del perché Ljiuba non ritorna, del perché la casa sembra così vuota, del perché nessuno (a cominciare da loro) ha più voglia di giocare.... Io non so rispondere a loro più di quanto sappia rispondere a me stesso.
A volte ritornano, dice. Io non ci spero. la vita sa quando e dove farti male, a morte. Giorni fa tornando a casa pensavo che la testolina di questa gattina che spuntava dal cancello era una delle più forti sensazioni di "casa" che avevo. Poi mi si affacciò il solito pensiero..... "e se.....no, ma no, non questa volta, non lei......"
E infatti.....
Quando morì il primo gatto dissi a mio figlio che era andato in cielo a fare compagnia al nonno, e adesso giocavano insieme. Adesso non saprei che dirgli. Il nonno ha già quattro gattini con sé, da badare. Vorrei dirgli che questa volta andrà diversamente. Ma sono io il primo a non sentirlo, dentro di me....
La vita sa sempre dove e quando farti male. E io in dio ho smesso di crederci da un pezzo.
Chi non ama i gatti non può capire che adesso darei buona parte del tempo che mi resta da vivere, per ritrovarla stasera dietro al cancello, che mi aspetta.....
Ljiuba, il nonno può aspettare. Torna a casa.....