giovedì 1 maggio 2014

Ayrton

Era il 1° maggio, come oggi. Si correva il terzo Gran Premio della stagione che avrebbe dovuto vederlo tornare campione del mondo. Invece, malgrado fosse alla guida della monoposto più veloce del momento, dopo due gare era già in ritardo. Due pole position, due ritiri. In testa era un giovane tedesco che prometteva di fare molta strada, Michael Schumacher.
Per la Festa del Lavoro si correva ad Imola, Gran Premio di San Marino, autodromo Dino Ferrari, la pista di casa del Cavallino che ormai da troppo tempo lasciava che a casa sua ed altrove a spadroneggiare fossero altri. Prima le McLaren su cui Senna aveva vinto tre mondiali, poi le Williams su cui contava di vincere il quarto, per andare a pari con il grande rivale di sempre Alain Prost. Terzo GP, terza pole position, terza gara in salita, dopo sette giri era già indietro, avanti c’era quel diavolo di Schumacher che non aveva alcun timore reverenziale con la sua Benetton che teneva dietro la Williams, nel 1994 non più così competitiva come nelle passate stagioni.
Ayrton tirava al massimo, per correre dietro ai suoi sogni infiniti di velocità e di vittoria. Ma era un fine settimana maledetto, uno di quelli in cui gli Dei presentano il conto. Lui il suo destino l’aveva scritto dal giorno in cui era salito per la prima volta su una monoposto. Quello di chi è grato agli Dei, e perciò deve morire giovane. Quello di tanti eroi di cui la storia della Formula 1 è sempre stata piena, dai tempi di Nuvolari, di Enzo Ferrari, di Alberto Ascari fino ai giorni nostri in cui le vetture sono appena un po’ più sicure di una volta. Appena, perché a 300 all’ora non c’è sicurezza possibile, basta una piccola vite a vanificare un grande progetto. Basta un’uscita in curva per andare a correre la volta successiva sulla pista degli Dei.
Quel fine settimana alla curva intitolata a Gilles Villeneuve, altro eroe passato nel Walhalla delle corse dodici anni prima, era morto Roland Ratzenberg, giovane promessa austriaca appena sbarcato in F1 sulle orme dei suoi idoli Niki Lauda e Gerhard Berger. Ayrton ne era rimasto scosso, tanto da non voler quasi correre quella mattina e da decidere di imbarcarsi alla fine sulla sua Williams con la bandiera austriaca che si riprometteva di sventolare a fine corsa, in segno di solidarietà ed affetto verso lo sfortunato giovane collega.
Era un brasiliano atipico Ayrton. Non proprio estroverso come ci ha abituato la sua gente, ma estremamente sensibile, tanto nei rapporti umani quanto in pista nella ricerca dell’assetto migliore. Ad Imola corse con Ratzenberg nel cuore, senza sapere che di lì a poco l’avrebbe rincontrato lassù dove il campionato del mondo non finisce mai, perché dura per l’Eternità. Il destino che Ayrton aveva scritto gli si materializzò alla curva Tamburello, quando il piantone dello sterzo di una vettura che per una volta il mago Adrian Newey aveva sbagliato a progettare si spezzò e lo rese impotente nel controllare il suo bolide impazzito. Lo schianto in curva spezzò un altro piantone, quello della sospensione che andò a centrarlo alla testa trapassando il casco ed anche la sua testa all’altezza della tempia destra.
Fu un incidente terribile, anche perché il mondo vide morire in diretta Ayrton Senna. Quella monoposto ferma nella via di fuga del Tamburello, quella scia di sangue che continuava ad allargarsi a lato della paratia della Williams tolse subito ogni speranza a decine di milioni di persone che avevano visto il loro cavaliere invincibile andare ad infrangersi su un ostacolo di quelli che aveva evitato con nonchalance tante volte, lui che era un maestro di guida in condizioni estreme e sul bagnato che rendeva estremamente prudenti anche i suoi colleghi più bravi aveva compiuto le sue imprese più spettacolari.
Niki Lauda si era arreso sotto l’acqua nel 1976 al Fuji e aveva consegnato il titolo nelle mani di James Hunt, l’inglese volante che di tutti i piloti era quello che somigliava più ad Ayrton. Hunt se n’era andato nel 1993, vittima delle sue intemperanze fuori pista, Ayrton se ne andò il 1° maggio 1994 vittima dell’ansia di tornare quello che era stato, il numero 1, e di una macchina costruita troppo in fretta e troppo male. Quel mondiale che aveva cominciato da favorito si concluse con la corona iridata nelle mani di Michael Schumacher, che gli rese omaggio nel modo più scenografico ripetendo ai danni di Damon Hill, suo contendente all’ultima gara di quella stagione, quelle sportellate con cui Ayrton si era “divertito” tante volte insieme ad Alain Prost. Una volta, nel 1989 gli era andata male, l’anno dopo con il francese – ahinoi – alla guida della Ferrari gli era andata invece assai bene.
Oggi sono vent’anni esatti, e c’è un altro eroe che sta lottando per non andare a riabbracciarlo troppo presto. Gli Dei stanno reclamando anche Michael Schumacher, l’unico in grado nel tempo di superare i suoi record e di emulare le sue gesta. Adesso al Tamburello c’è una statua che ritrae Ayrton a grandezza naturale, commemorativa di quel giorno e di quella tragedia, ma soprattutto di quella leggenda che chiunque abbia avuto a cuore questo sport sublime e crudele che è la corsa porta e porterà per sempre nel cuore.

Luca Cordero di Montezemolo dice che se fosse sopravvissuto Ayrton avrebbe concluso la sua carriera nella Ferrari. A noi viene da pensare piuttosto che se Enzo Ferrari fosse sopravvissuto fino a quel 1° maggio 1994 sarebbe stato il primo a piangere dopo lo schianto del Tamburello, per aver visto morire se stesso un’altra volta.

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