venerdì 25 aprile 2014

Il 25 aprile spiegato ai più giovani

Coloro che non sanno ricordare il passato sono destinati a ripeterlo. E’ la frase celebre di Jorge Agustin Nicolàs Ruiz de Santayana y Borras (filosofo spagnolo considerato il padre putativo di molti celebri pensatori moderni tra cui lo stesso Bertrand Russell) che viene premessa spesso a quei documentari sulla Resistenza e la lotta partigiana che tornano di attualità (o dovrebbero farlo) tutti gli anni alla scadenza del 25 aprile.
In particolare, è molto bello e significativo quello dell’incontro tra un vecchio partigiano e alcuni ragazzi sui Lungarni a Firenze, durante il quale con poche semplici parole in “vernacolo” fiorentino l’anziano ex-combattente riesce a dare ai suoi giovani ascoltatori il senso di questa giornata, di quello che significò per chi aveva allora la loro età, di quello che dovrebbe significare in eterno. «Se vincevano loro (i nazifascisti, ndr), voi adesso non c‘eravate». E’ il succo e la sintesi di tutto. Altro in fondo non ci sarebbe da dire.
E invece ogni anno bisogna ritornarci sopra, con le stesse immagini e gli stessi discorsi, certi che l’anno prossimo saremo comunque punto e a capo. Non c’è un giorno in cui la nostra difficoltà intrinseca a diventare popolo si espliciti più del 25 aprile. Ogni paese ha la sua giornata simbolo: il 14 luglio la Presa della Bastiglia per i Francesi, il 4 luglio la Dichiarazione di Indipendenza per gli Americani, per dirne soltanto due. Il nostro, almeno nelle intenzioni di chi ci credeva consacrandolo di individuare il giorno in cui andammo più vicini a diventare una nazione finalmente libera, indipendente ed unita, è appunto il 25 aprile.
Sandro Pertini in comizio a Milano il 25 aprile
Nel ricordo di quella mattina del 1945 in cui il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia, nelle persone di Luigi Longo, Sandro Pertini e Leo Valiani, dette l’ordine ai partigiani dell’insurrezione finale a Milano, l’ultima città dove le SS tedesche ed i fascisti repubblichini resistevano ancora. In quelle stesse ore il comandante nazista Wolff trattava la resa con il Cardinale Schuster e gli angloamericani, e Mussolini cercava di fuggire verso il ridotto della Valtellina, dove avrebbe voluto organizzare l’ultima sua difesa, o trattare la sua fuga in Svizzera.
Ci vollero tre giorni, gli ultimi sanguinosi tre giorni di una lunga serie durata quasi due anni, affinché la situazione si risolvesse, la Germania di Hitler e la Repubblica di Salò di Mussolini deponessero definitivamente le armi, e il dittatore italiano finisse appeso al distributore di benzina di Piazzale Loreto assieme a Claretta Petacci ed agli ultimi gerarchi fedelissimi. Ma la data convenzionale è quella dell’insurrezione. Quindi sarà per sempre 25 aprile.
Ma come? La giornata che dovrebbe unirci è da sempre quella che più ci divide. Anche non considerando i tentativi di revisionismo storico operati dai nostalgici dei regimi totalitari che vennero sconfitti in quella lontana primavera, quando viene il momento per l’ANPI di rispolverare i gagliardetti delle Brigate Partigiane e portare di nuovo i reduci a riempire piazze e strade a testimoniare il loro coraggio e la loro vittoria ai più giovani, ecco che la classe politica e la società civile si dividono più che mai, da sempre. Due schieramenti contrapposti, chi ritiene di avere da sempre il monopolio della vittoria e quindi della sua celebrazione, chi ritiene invece di non dover festeggiare perché quella vittoria fu una questione esclusivamente comunista, e pertanto troppo politicizzata. Come se si trattasse, da ambo le parti, di andare o non andare alla festa dell’Unità.
Se le cose stanno così per i più vecchi, come si può spiegare ai giovani perché bisogna ogni anno tornare per strada a sfilare dietro ai loro nonni, quelli che ancora sono vivi almeno? Adesso che la maggior parte dei testimoni attori di quella lontana tragedia di Liberazione se ne sono andati, e che dei pochi che restano solo alcuni, come il vecchio partigiano dei Lungarni, sanno trovare le parole semplici per spiegare il senso di qualcosa così lontano nel tempo eppure così presente ancora nel nostro destino? Perché c’è poco da dire, «non eravamo tutti uguali, noi si combatteva per la libertà che non avevamo mai avuto, gli altri stavano con Hitler, quello se avesse vinto faceva pulito!». Come si fa a spiegare ai ragazzi che oggi hanno l’età che il vecchio partigiano aveva nel 1945 che di Hitler ce ne sono tanti in agguato, specialmente adesso che la crisi economica sta preparando loro il terreno, come negli anni 30 del secolo scorso?
E’ difficile trovare le parole per far capire ai più giovani il senso della storia. I giovani parlano un linguaggio più avanti anni luce del nostro. Chi scrive è nato 15 anni dopo la Seconda Guerra Mondiale. Ma si ricorda bene i racconti di nonni e nonne, padri e madri, zii e zie. Di come sapevano rendere in modo efficace l’immagine di quei giorni difficili, perché era stampata a fuoco nella loro memoria. Mio padre si arrabbiava molto quando vedeva noi ragazzi degli anni 70 che ci tiravamo la farina fuori di scuola a Carnevale, e mi spiegava che lui aveva dovuto attraversare le linee tedesche per andare a procurarsela insieme a mio nonno al mercato nero nelle campagne. Perché in città non c’era più nulla e si faceva la fame, e mia zia sua sorella aveva due anni e doveva mangiare.
Mio nonno mi raccontava dei mesi passati sul tetto, d’inverno, perché i repubblichini passavano tutti i giorni a rastrellare gli uomini adatti al lavoro per i Lager tedeschi oppure per il ricostituito Esercito del Duce. Mia madre, le mie zie raccontavano l’orrore (per chi era donna ancor più che per chi era uomo) dei giorni del passaggio del Fronte, le violenze subite dalle truppe coloniali, le rappresaglie tedesche e le distruzioni, il sollievo all’apparizione dei primi G.I. americani, che insieme alle sigarette ed alla cioccolata portavano finalmente la certezza che la vita non era solo arrivare alla mattina dopo, ma qualcosa che valeva la pena di essere vissuta e sarebbe stata vissuta anche negli anni a venire.
Oggi leggere non è più di moda. E allora è forse inutile consigliare ai ragazzi la letteratura sulla Resistenza, dalla Guerra Partigiana di Giorgio Bocca all’Anno sull’altipiano di Emilio Lussu, ai resoconti dal Braccio della Morte di Sandro Pertini da Regina Coeli o di Indro Montanelli da San Vittore. O film come la Ciociara di Sophia Loren o Tutti a Casa di Alberto Sordi, perché non è un cinema fatto di effetti speciali. La scuola poi, oltre a essere vittima di programmi sempre più distratti e inadeguati, non ha più soldi né per le gite né per le semplici uscite di una mattina, e allora l’eventualità che i nostri ragazzi possano essere portati in luoghi come Auschwitz, la Risiera di San Sabba o Sant’Anna di Stazzema è ridotta al lumicino.
In un mondo in cui siamo sempre più numerosi, e sempre più portati a percepire non solo l’altro ma anche il vicino di casa come un fastidio, un ostacolo, un pericolo, mentre riprendono piede e rialzano la testa ideologie e comportamenti ispirati a chi 70 anni fa stava dall’altra parte, sono sempre meno quindi le risorse a disposizione di chi vuole far sì che la Storia per una volta sia davvero maestra di vita, e che non si ripetano errori ed orrori del passato.
La speranza è tenue. Ogni anno per la Giornata della Memoria si deve constatare quanti e quali sono stati e sono i popoli a cui è toccato e tocca in sorte l’Olocausto, dopo quello ebraico. Ogni anno per il 25 aprile si deve registrare come la Giornata dell’Unità Nazionale se ne scivola via tra l’indifferenza, l’ostilità perfino, non solo di chi sta seduto in un comodo scranno parlamentare e parla perché tanto sa che l’immunità gli permette di dire qualsiasi sciocchezza, ma anche di chi sta attraversando un momento difficile, economicamente e moralmente, e non riesce a capire in che modo eventi accaduti quasi 70 anni fa dovrebbero interessarlo più della crisi spaventosa che stiamo attraversando. E il punto è proprio qui. Tout se tient, tutto è legato. Ma pochi ormai hanno voglia e sono in grado di spiegare perché. Meglio adagiarsi nell’ignoranza e cavalcare le tigri che stanno affilando gli artigli.
Queste righe sono le stesse che si potevano scrivere un anno fa, e, se la situazione non peggiora ulteriormente, le stesse che si potranno scrivere tra un anno. Il rischio che lascino il tempo che trovano del resto è insito nel mestiere di giornalista. Tacere comunque sarebbe già una sconfitta. Tanto più che nuovi venti di censura e nuove aspirazioni autoritarie ricominciano a soffiare.
E allora, si ritorna sempre a Santayana. Si può ignorare o dimenticare il passato, ma allora è bene prepararsi a riviverlo. La memoria storica è un esercizio difficile, ma necessario. Non tutti quelli che ci spiegano perché le forze politiche e le autorità istituzionali attuali hanno reso prive di significato le celebrazioni del 25 aprile vogliono farci necessariamente del male. Come non tutti quelli che saltano loro addosso indignati dicendo che la Festa della Liberazione non si tocca ci vogliono bene, o ci dicono la verità.

All’anno prossimo. 

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