giovedì 26 giugno 2014

DIARIO MUNDIAL: Gli sdraiati in azzurro

Arriva a Malpensa l’aereo degli azzurri. Sorpresa, ad aspettarli non c’è nessuno. Non siamo più quelli che tiravano i pomodori per un secondo posto, Mondiali del 1970, Italia sconfitta dal più grande Brasile di tutti i tempi e solo a 30 minuti dalla fine. Almeno per certe cose siamo cresciuti, maturati. Oggi è giornata di lavoro, tutti hanno qualcosa di più importante da fare che andare a vedere scendere dalla scaletta una delle più infelici squadre azzurre di tutti i tempi.
I romani proseguono per Fiumicino, i milanesi scendono. Da una parte la rappresentativa nazionale italiana, dall’altra Mario Balotelli. I primi hanno il buon gusto di presentarsi nella divisa ufficiale, almeno questa (forse solo questa) impeccabile. Lui, “l’altro”, no. Berrettino da rapper, capelli a strisce colorate, maniche di camicia arrotolate e cuffiette. Se voleva tagliarsi dietro gli ultimi ponti, ci riesce benissimo. I “fratelli neri”, come direbbe lui, forse non ci troverebbero nulla da dire. I fratelli italiani, diciamo noi, ormai sicuramente hanno finito qualsiasi commento.
Su una cosa ha ragione Mario. Non è lui la causa principale del fallimento dell’Italia a questi Mondiali. Il discorso è più complesso, è questa Italia che con il suo fallimento come società civile prima ancora che come comunità sportiva ha provocato la nascita ed il prosperare di personaggi come lui. Che riunisce in sé in perfetta sintesi due dei mali principali del nostro paese.
Il primo è quell’atteggiamento politicamente corretto e umanamente infingardo che abbiamo verso tutti coloro che – a torto o a ragione, il discorso è lungo e non è questa la sede – arrivano nel nostro paese da altri posti del mondo meno fortunati o che comunque fanno parte di minoranze etniche. A costoro, il politically correct prevede che nessuno si azzardi a prescrivere o rimproverare o addirittura contestare alcunché, a pena di essere tacciati di razzismo e tutto quello che ne segue.
Il secondo è l’atteggiamento profondamente sbagliato che abbiamo assunto nei confronti dell’ultima generazione, quella dei nostri figli. Nel presupposto esiziale che fosse giusto risparmiare loro tutte le difficoltà – anche minime e comunque funzionali ad un corretto sviluppo della personalità individuale – che abbiamo incontrato noi al tempo della nostra crescita, ne abbiamo fatto delle persone incapaci di affrontare qualsiasi ostacolo, anche il più insignificante. E che reagiscono adesso ad ogni nostra sollecitazione con un ribellismo di pura facciata, favorito dall’isolamento sotto le cuffiette dell’iPod.
Mario Balotelli è una via di mezzo tra l’individuo che ha capito benissimo le contraddizioni e le ipocrisie della nostra società e che la sfrutta senza scrupoli, in modo altrettanto contraddittorio ed ipocrita, per non pagare dazio, mai. Ed è insieme l’individuo che incarna perfettamente il giovane protagonista del saggio di Michele Serra Gli sdraiati. Il suo problema è che ha cercato (e probabilmente cercherà) per tutta la vita qualcuno capace di metterlo di fronte anche rudemente ad un sistema di regole – magari ricorrendo al benedetto ceffone che ha risolto tante situazioni ai nostri genitori nel difficile e meritorio compito di educarci – e purtroppo per lui ha trovato solo il dorato mondo del calcio, che se non sei già più che strutturato per conto tuo finisce per rovinarti irreparabilmente. In tutti i sensi.
Se ne va da solo Mario, verso la sua Motown virtuale, mentre gli altri azzurri sfilano mesti verso l’uscita. Finisce così l’avventura di Cesare Prandelli sulla panchina azzurra, con dei saluti frettolosi ai suoi ragazzi, figli e figliastri, campioni e promesse mancate. Tutti voluti da lui, tutti affondati insieme a lui, meno quei quattro o cinque che avevano già vinto senza di lui. La notte tra l’altro ha portato consiglio ad Andrea Pirlo, che si è detto disposto a mettersi a disposizione del prossimo CT, chiunque sia, se lo vorrà.
Già, il prossimo CT……. Speriamo che la Russia vada fuori stasera, così si libera Fabio Capello, l’unico insieme a Carlo Ancelotti dei nostri tecnici che gioca per vincere e sa come farlo. L’unico che può rifondare questa baracca. Parla Albertini, che nessuno ha capito ancora cosa ci stia a fare ma che ha tutte le intenzioni di continuare a farlo: “Per il prossimo allenatore della nazionale, tempi stretti”.
E’ già stata fissata un’amichevole a settembre contro l’Olanda, e chissà se gli Orange a quell’epoca avranno sulle maglie la loro prima stella. Glielo auguriamo, dopo una vita da secondi, e sarebbe un onore essere i primi a festeggiarli. Ma francamente sembra tanto un tentativo di creare un ricorso storico. La prima, bellissima uscita della Nazionale rifondata da Fulvio Bernardini nel 1974 fu appunto a Rotterdam contro Cruyff e compagni. Antognoni e gli altri ragazzi azzurri non sfigurarono pur perdendo, e uscirono dal campo tra i complimenti di avversari che erano già diventati leggenda. Per poi diventare otto anni dopo leggenda anche loro.
Il ciclo che si deve aprire adesso è molto più problematico, perfino rispetto a quattro anni fa. Allora, un Cesare Prandelli contattato da una Federazione in stato confusionale prima ancora del disastro sudafricano del Lippi-bis e stimolato a rispondere alla chiamata da Della Valle che non vedeva l’ora di liberarsi di lui e che gli fece ponti d’oro inaugurò la sua serie andando a perdere contro un avversario contro cui non avevamo mai nemmeno sognato di perdere nei peggiori incubi, la Costa d’Avorio di Drogba (e poco altro). Ma c’era almeno l’illusione di un ricambio generazionale, anche se poi a ben vedere questo ricambio era sostanziato da trentenni come Cassano e Diamanti o da giovani problematici e ingestibili come Mario Balotelli.
Il disastro brasiliano ha spazzato via queste ed altre illusioni, ed ha stabilito nuove certezze, oltre a lasciare un conto da pagare che si aggira sui cinque milioni di euro, per quindici giorni di soggiorno. E’ un disastro epocale come quello della Corea nel 1966, ma stavolta non si possono chiudere le frontiere, perché nel frattempo ci siamo costruiti un mondo molto più complicato e solo apparentemente più evoluto. La politica sportiva, come qualsiasi politica, non viene più decisa a Roma, ma a Maastricht e Bruxelles. Vanno trovate altre soluzioni, che comunque contemplino la rimessa in auge, o almeno in funzione dei nostri vivai.
Continuare a riempire le nostre squadre ed il nostro campionato di stranieri per la maggior parte poco più che mediocri fa di sicuro la fortuna di direttori sportivi e procuratori, che viaggiano a percentuali (in chiaro e in nero), ma difficilmente farà la fortuna del nostro calcio. Perché oltre a togliere spazio ai nostri ragazzi nelle squadre di club offre a questi pedatori che ai tempi d’oro avrebbero durato fatica a trovare posto nella nostra serie B l’occasione di migliorarsi apprendendo tecniche e tattiche più evolute per poi rivoltarcele contro in occasione delle prossime competizioni internazionali.

Mancano quattro anni a Russia 2018. A prescindere da dove sarà ad allenare Fabio Capello, se le cose non cambiano trovare undici ragazzi in grado di onorare la maglia azzurra sarà un’impresa disperata. Come passare un turno ad un Mondiale.

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