mercoledì 25 giugno 2014

DIARIO MUNDIAL: Italia anno zero

Diceva Winston Churchill, gli italiani perdono le guerre come se fossero partite di calcio, e le partite di calcio come se fossero guerre. Ai tempi del grande statista inglese, l’Italia si era indubbiamente rivelata un avversario più forte sul campo di calcio che su quello di battaglia. Ma l’aforisma di Churchill trova fondamento un po’ in tutta la nostra storia nazionale. 
Ci siamo ricordati della bandiera tricolore solo nelle occasioni in cui la nostra squadra di calcio nazionale ha vinto qualcosa. D’altro canto, niente ha scatenato la nostra rabbia di cittadini come una sconfitta degli azzurri in una competizione che conta.
Veniamo da tre anni – per semplificare il conto, che in realtà sarebbe più lungo – in cui la nostra classe politica ci ha fatto vivere una delle crisi economiche e sociali più drammatiche di sempre. Eppure, nessuno che si sia scatenato, al bar o altrove, a dire io avrei fatto così, avrei tolto questo e messo quello, così non si può andare avanti, tizio se ne deve andare, caio deve finire di fronte alla disciplinare e guai se non succede.
Per queste cose, ci vuole invece una eliminazione al primo turno della Nazionale. Una figuraccia come nessun altro è stato capace di fare, a parità di eliminazione. Quanta grandeur nel crepuscolo spagnolo e quanta dignità nell’addio inglese. Non abbiamo convinto del tutto nemmeno nell’unica vittoria, siamo stati inesistenti con la Costa Rica (fino a poco tempo fa una specie di Lussemburgo del Sud America) e polli da infilzare con l’Uruguay.
Torniamo a casa dopo la fase a gironi, è la settima volta, la seconda consecutiva. Nel 1950, la prima volta in Brasile, non avevamo saputo far fronte in tempo al venir meno del blocco del Grande Torino schiantatosi l’anno prima a Superga. La Svezia che ci eliminò, in compenso, era una squadra migliore di tutte quelle di questo Mondiale in corso d’opera messe insieme.
Anche la Svizzera che ci sbatté fuori nel Mondiale casalingo quattro anni dopo era una discreta squadra. Ballaman & C. sorpresero Boniperti & C., un’Italia che non aveva trovato ancora – tra Milan, Fiorentina e Juventus – un blocco su cui costruire una nazionale all’altezza di un grande campionato.
Nel 1958 non ci qualificammo nemmeno, ma mettemmo in mostra a Belfast i vizi che ci avrebbero condannato a Santiago del Cile quattro anni dopo. Erano gli anni in cui si credeva che bastasse naturalizzare oriundi sudamericani, senza riflettere che questi signori erano già sfamati, carichi di gloria ed interessati il giusto ad una ptria che era stata quella dei loro nonni, non la loro. 
A Santiago facemmo la prima conoscenza con gli arbitraggi a senso unico. Ken Aston fece a favore del Cile quello che Byron Moreno fece a favore della Corea 40 anni dopo. Ma noi glielo permettemmo giocando come peggio non si poteva.
Nel 1966, Edmondo fabbri portò in Inghilterra una squadra che era già in buona parte quella con cui Valcareggi avrebbe vinto la partita del secolo e messo paura a Sua Maestà Pelé in Messico quattro anni dopo. Ma Fabbri aveva idee sue, e riuscì a perdere non solo dalla solida U.R.S.S. ma anche dall’improbabile Corea del Nord. Il dentista Pak Doo Ik che segnò il gol a noi fatale divenne comunque un benemerito del nostro calcio, perché provocò quella chiusura delle frontiere da parte della Federcalcio che favorì in un periodo abbastanza breve il rifiorire del nostro vivaio.
Nel 1974 gli eroi dell’Azteca erano invecchiati e dettero un malinconico addio al primo turno ai mondiali tedeschi, complice una grande Polonia. Nel 1978 però in Argentina c’era una generazione nuova pronta a raccogliere degnamente il testimone. Una generazione che avrebbe riportato il titolo mondiale in Italia dopo 44 anni, dopo il gro d’onore sul prato del Santiago Bernabeu di Madrid.
Nei 24 anni successivi ci eravamo abituati male, finendo spesso eliminati alle ultime fasi del torneo e soltanto ai calci di rigore ma soprattutto finendo per rivincere il Mondiale in quel di Berlino, sempre ai rigori e stavolta senza che nessuno tremasse. Quattro anni dopo, in Sudafrica, l’errore fu pensare che il tempo non fosse passato né per Lippi né per la sua squadra. Il girone era molto più facile di quello di adesso in Brasile, ma finimmo fuori con due soli punti. Stavolta con tre.
I vecchi eroi sono stanchi, e si guardano indietro alla ricerca di giovani a cui passare il testimone. Non ce ne sono, o sono stati lasciati a casa da un C.T. rimasto legato al suo calcio da oratorio. Cesare Prandelli è sempre stato uno bravo a “cavare il sangue dalle rape”, a motivare cioè e far rendere al meglio giocatori mediocri. Con una Fiorentina non trascendentale sfiorò i quarti di Champion’s League nel 2010, con una Nazionale più o meno come questa sfiorò il titolo a Euro 2012. Ma le sue squadre, a ben vedere, sono composte sempre appunto di rape, giocatori che non sarebbero nemmeno presentabili su una ribalta internazionale.
Se a Firenze poteva dare la colpa al “braccino” dei della Valle, qui in Nazionale l’unico responsabile è lui. E’ lui che lascia in panchina un Alberto Aquilani mortificandolo, è lui che lascia a casa un Giuseppe Rossi o un Mattia Destro avvilendoli. E’ lui che dice no a Totti e Toni perché vecchi, salvo rendersi conto che a questi ritmi e su questi palcoscenici sarebbero stati ancora i migliori. E gli avrebbero forse salvato la panchina.
Non c’è un Fulvio Bernardini all’orizzonte stavolta, anzi i migliori allenatori, da Capello ad Ancelotti, sono tutti sotto contratto e senza nessun motivo per non rispettarlo. Ma soprattutto non c’è la generazione del 1974, che fu buttata in campo e fece vedere le streghe alla prima partita a Cruyff & soci, e otto anni dopo vinse in tromba un Mondiale come se ne sono visti pochi. E le frontiere, sic stantibus rebus, non si possono chiudere più.

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