sabato 14 giugno 2014

DIARIO MUNDIAL: La Nazionale non abita più qui?

Lo sport è cultura. Prima ancora che con la strategia, la tattica, l’allenamento, la classe individuale, l’amalgama di squadra, si vince perché si ha lo spirito giusto, alimentato dai contenuti che derivano dalla propria personalità individuale (più o meno educata in senso lato) e dal senso di appartenenza alla comunità che si rappresenta.
Il calcio non fa eccezione. Siamo un paese di 60 milioni di commissari tecnici, e solo pochi ancora riescono a capire che le nostre grandi vittorie sono maturate nei periodi in cui la nostra comunità nazionale ha saputo tirar fuori la parte migliore di sé (spesso per la verità tenuta accuratamente nascosta) e trasmetterla alle rappresentative che scendevano in campo a difendere i suoi colori.
In questi giorni, i campionati mondiali di calcio che si stanno disputando in Brasile ripropongono il consueto turbine di passioni controverse che gira attorno alla nostra nazionale fin dalla sua nascita. E’ l’occasione per rendersi conto di tante cose, a cominciare dal fatto che siamo tutto fuori che una solida e solidale comunità nazionale. Lo diventiamo occasionalmente solo al fischio finale di grandi vittorie, o al verificarsi (va detto) di tragiche calamità naturali.
Per il resto del tempo, neanche il calcio, estrema passione nazionale, riesce a metterci d’accordo anche solo per 15 giorni. E così, finiamo per subire da paesi che hanno meno tradizione, meno classe complessiva, meno blasone di noi, ma che si presentano in campo con una fame, una determinazione, un senso di rivalità a noi quasi sempre sconosciuta.
In nessuna città d’Italia il fenomeno diventa clamorosamente visibile come a Firenze. Da circa vent’anni a questa parte c’è una netta e apparentemente insanabile spaccatura tra gli appassionati di calcio che continuano a tifare per la nazionale del proprio paese e quelli che invece continuano a snobbarla, se non a detestarla e a tifarle contro. Questi ultimi addirittura giustificano il loro atteggiamento con una pretesa manifestazione di fiorentinità. Lo slogan più spesso ripetuto è: La Fiorentina è la mia nazionale, c’è solo la Fiorentina. E solo chi lo fa proprio è ritenuto fiorentino vero dagli altri apostati azzurri.
Ci sarebbe da chiedersi quanti conoscono le ragioni di simile disaffezione, se non addirittura odio. Ragazzi di vent’anni e uomini fatti di trenta che si vantano di non avere mai tifato per l’Italia, di tenere di volta in volta per Spagna, Germania, Argentina o Brasile. Ma perché?
Fino a tutti gli anni ottanta, i fiorentini riversavano in massa il loro tifo sulla Nazionale, quando questa scendeva in campo. Chi scrive ricorda bene le strade della città deserte, quasi fosse il set del film Io sono leggenda, in occasione di certe partite storiche dove la Nazionale affrontava avversari di prestigio o giocava per titoli importanti. E l’orgoglio dei tifosi viola quando qualche loro beniamino veniva chiamato a indossare la maglia azzurra.
Così negli anni cinquanta fu motivo di vanto il trasferimento in blocco della Fiorentina del primo scudetto nella Nazionale di allora. In Messico nel 1970, nello storico 4-3 alla Germania Ovest c’era Picchio De Sisti, bandiera viola e capitano del secondo scudetto. Nel 1978 c’era Giancarlo Antognoni, il ragazzo che giocava guardando le stelle che Bernardini chiamò in nazionale e che Bearzot vi mantenne, fino all’atto finale di sollevare la Coppa del Mondo, nel 1982 al Santiago Bernabeu colorato interamente d’azzurro. Perché allora erano gli spagnoli che stavano a guardare noi.
Bearzot era nel cuore di tutti i fiorentini perché resisteva ai poteri forti del nord che chiedevano l’estromissione di Antognoni dalla rappresentativa, a vantaggio di numeri 10 meno dotati ma che indossavano maglie a strisce. Chi pretende oggi di sapere cos’è la fiorentinità forse dovrebbe ripassarsi queste lezioni. La notte dell’11 luglio 1982 non rimase un fiorentino in casa, se stava bene di salute. Tutti presero la bandiera tricolore e scesero in strada, rimanendoci fino all’alba.
I guai sono cominciati dopo. Il lungo braccio di ferro della Fiorentina di Pontello con la Juventus risoltosi a vantaggio di quest’ultima spesso attraverso anche l’uso di maniere forti e appoggi federali fecero sì che una
parte della tifoseria arrivasse al punto di rottura con la Federazione Italiana Giuoco Calcio. Da lì a identificare la FIGC con la nazionale azzurra il passo risultò molto breve.
Pochi giorni dopo la vendita di Roberto Baggio alla Juventus, si riuniva a Coverciano la nazionale in vista di Italia 90. La dura contestazione viola si trasferì da Piazza Savonarola ai cancelli del Centro Tecnico, e anche lì successe il finimondo. Fu il classico caso in cui il marito volle fare il famoso dispetto alla moglie. O almeno furono molti i mariti fiorentini, che in occasione del mondiale giocato in casa presero a fare il tifo per altre nazionali.
Firenze come Napoli (che però subiva l’effetto del fenomeno Maradona) diventarono aree extraterritoriali rispetto alla Repubblica Italiana. E quando Donadoni sbagliò il rigore decisivo contro l’Argentina qui molti gioirono. Archiviate le notti magiche, il fenomeno rimase. Nel 1993 in occasione di Italia-Messico per la quale fu scelta poco opportunamente Firenze come sede, i tifosi viola affollarono lo stadio Franchi, ma indossando il sombrero. La cosa più carina che si sentì intonare sugli spalti fu l’accostamento di Antonio Matarrese, allora presidente della FIGC a quel Pietro Pacciani già sospettato di essere il Mostro di Firenze. Ovviamente, don Antonio non la prese bene, e quando la Fiorentina si complicò la vita precipitando in zona retrocessione sicuramente non mostrò un atteggiamento benevolo o comprensivo.
Da allora, mezza Firenze continua a sentirsi italiana, l’altra mantiene la secessione. Nel 2006 per le strade colorate di nuovo dal tricolore la notte del 9 luglio c’era la stessa moltitudine di 24 anni prima. Ma il clima adesso è cambiato. Snobbare la Nazionale è un vanto che si esibisce a scena aperta, soprattutto tra i giovani. Quello che in quasi tutti gli altri paesi sarebbe un atteggiamento che porterebbe dritto all’ostracismo sociale (se non a conseguenze peggiori), qui a Firenze è diventato un segno di distinzione.
Nemmeno la presenza sulla panchina azzurra dell’ex amatissimo tecnico viola Cesare Prandelli, di cui molti sognano il ritorno dopo gli europei, vale ad attenuare il fenomeno più di tanto. E quando si comincia a paventare l’ipotesi di una nuova eliminazione precoce della nostra squadra azzurra, c’è già chi dichiara di prepararsi a festeggiare.

Bertolt Brecht diceva: disgraziata la patria che ha bisogno di eroi. A Firenze in questo periodo per sentirsi italiani pare proprio che bisogna essere quasi degli eroi.

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