lunedì 23 giugno 2014

DIARIO MUNDIAL: La teoria della razza

Uno dei miei passatempi preferiti è quello di intrattenermi con uno dei miei più cari amici in conversazioni che spaziano più o meno su tutti gli aspetti dello scibile umano. Essendo tutti e due appassionati di calcio, è inevitabile che il calcio sia spesso l’argomento di discussione. Essendo tutti e due spiriti liberi e dalle argomentazioni spesso eterodosse, è inevitabile che nelle nostre conversazioni questo argomento venga “manipolato” in maniera assolutamente difforme da quanto solitamente avviene in quelle altrui, dal bar all’ufficio all’ombrellone.
Questo mio carissimo amico per esempio sostiene che ogni sport è più o meno congeniale ad una razza (intesa biologicamente come “etnia”) piuttosto che ad un’altra. Risultati alla mano. Per esempio, da quando i neri non solo d’America ma un po’ di tutto il mondo hanno cominciato a poter nutrirsi ed allenarsi come i bianchi, nelle discipline di corsa non c’è più stata partita, tranne pochissime eccezioni (due delle quali italiane, Livio Berruti e Pietro Mennea).
Et pour cause. Senza scomodare il celebre aneddoto della gazzella e del leone, correre in Africa – la “culla” della razza nera – è una condizione essenziale dell’essere, e prima ancora del sopravvivere, per ovvi motivi. E’ parte di un bagaglio genetico ormai allestito da millenni, modificarlo o eguagliarlo è praticamente impossibile, per motivi di biologia e di cultura in senso lato. Un nero ha fin dalla nascita i muscoli e gli istinti adatti alla corsa, un bianco deve coltivarli ed apprenderli. E in una finale olimpica sono decimi di secondo che fanno la differenza.
Altro esempio, di segno opposto. Mai visto un nuotatore di colore in una gara che conta. Il nuoto sembra una riserva della razza bianca. Poi magari il mese prossimo esplode un Michael Phelps dalla pelle più scura di quella di Ussain Bolt, ma per il momento – e per un tempo a venire ragionevolmente lungo – la cosa appare assai improbabile, se non addirittura inverosimile. Anche qui, usi, costumi e culture offrono una spiegazione. In Africa, i corsi d’acqua in genere sono ambienti poco raccomandabili, abitati da predatori forniti di denti più o meno aguzzi. Il mare poi è l’Oceano, poco raccomandabile per la balneazione a qualsiasi latitudine. Un africano non si sogna di mettere piede in acqua a meno che non abbia scelta, per sfuggire a un male peggiore. Un nuotatore di colore è verosimile come la squadra giamaicana di bob a 4 di qualche anno fa.
A questa dissertazione, decidete voi se sbilanciata più sul serio o sul faceto, non può sfuggire ovviamente il calcio. Che nasce in Europa come “caccia” ad un pallone. A Firenze, dove il gioco ebbe ufficialmente origine nel 1530, il “gol” si chiama ancora così, “caccia”, e non è un caso. Nei secoli successivi, poi, il gioco si è evoluto grazie anche al passaggio del trattamento del pallone dalle mani ai piedi ed alla comparsa di strategie e tattiche come in ogni battaglia che si rispetti, giacché dal ventesimo secolo il calcio è sicuramente la continuazione della guerra con altri mezzi.
Secondo il mio amico – e mi trova abbastanza d’accordo – il calcio è uno sport congeniale alla razza bianca. In guerra o nello sport di caccia, i bianchi da secoli hanno sviluppato strategie e tattiche raffinatissime, in base alle quali ogni componente della squadra sa qual è il suo posto nella “battuta”. Sono pochi, a volte uno solo, il cacciatore, coloro che vanno sull’obbiettivo, il pallone o la preda, gli altri hanno i loro posti assegnati nello schieramento e guai se non fosse così. Questo i bianchi l’hanno metabolizzato da secoli, così si spiegava anche la loro supremazia in guerra, oltre che con il gap tecnologico.
I neri, argomentavamo, cacciano e combattono ancora secondo schemi più tribali. Non vuol essere un discorso razzista, anzi. E’ un riconoscimento implicito della loro diversità culturale. Probabilmente per agguantare un pecari o una gazzella sono più efficaci loro, ma per mettere un pallone in una porta attraverso un gioco di squadra il loro avventarsi tutti insieme sulla preda li condanna in partenza alla sconfitta, da parte dei più smaliziati bianchi.
Queste le nostre argomentazioni, sostanziate dalle prestazioni di molti giocatori di colore nel nostro campionato che spesso sembrano prediligere la “caccia all’uomo” piuttosto che al pallone, o palla o gamba e meglio se gamba, parafrasando Nereo Rocco a rovescio. Non essendo in questo momento storico il nostro calcio in grado di assicurarsi i migliori, quelli che arrivano qui sembrano spesso una tribù lanciata alla cattura del pranzo giornaliero, piuttosto che componenti di una squadra di calcio. Come dice un popolare commentatore, qualcuno di loro sembra oggettivamente più adatto a fare dei traslochi che a giocare in serie A.
Argomentazioni che ormai è superfluo condividere o meno. Perché nel frattempo sono arrivati i mondiali di calcio 2014. Ecco allora un Costa Rica che nasconde la palla all’Italia per 90 minuti. Di bianchi in squadra nemmeno mezzo (il Costa Rica, purtroppo, non l’Italia), quelli che non sono neri sono indios (altra etnia su cui dissertare, magari un’altra volta). Ecco una Francia che ormai di “gallico” ha soltanto lo stemmino disegnato sulla maglietta fare a pezzi una pur multietnica ma sempre abbastanza “pallida” svizzera. Il Brasile gioca peggio di sempre, e sarà un caso che il tasso di colored tra i suoi giocatori è sceso considerevolmente rispetto al passato glorioso di Pelé e Ronaldo. Il Ghana fa sfracelli contro la Germania, che si salva solo perché Miroslav Klose deve raggiungere il fenomeno nella classifica dei marcatori mondiali di tutti i tempi, se no buonanotte anche a lei.
La teoria della razza va a farsi benedire ufficialmente nel giugno 2014. Nelle prossime conversazioni, il mio amico ed io dovremo operare una profonda rivisitazione delle nostre basi culturali a partire dal darwinismo. Addio Kipling, il futuro è nelle mani di Jorge Luis Pinto. Anche se, qualche eccezione al nuovo che avanza c’è, e lascia sperare per la sopravvivenza delle vecchie nostre certezze. L’Olanda sembra aver dimenticato le sue dependances molucchesi, i suoi lancieri sembrano tutti di Amsterdam e dintorni da diverse generazioni, per questo sembravano avere con gli spagnoli dei conti in sospeso dai tempi di Guglielmo d’Orange.
Poi c’è la madre di tutte le eccezioni. Mario Balotelli riconcilia con il nostro calcio di sempre. Nel senso che fa rimpiangere gli Schillaci e i Di Natale figli di un sud che ha codificato pregi e difetti genetici e culturali dai tempi della magna Grecia. L’unica volta guarda caso che abbiamo fatto un tentativo di “apertura post-coloniale”, guarda te chi siamo andati a pescare. Con Supermario, e con ciò che contiene la sua testa crestata, avrebbe poche chances perfino questo Ghana.
Mi stai dicendo che hai messo un cervello abnorme in un armadio di due metri?” E’ una celebre battuta del film Frankenstein Junior, tra Gene Wilder e Marty Feldman. Ma potrebbe benissimo essere una citazione della biografia di Balotelli Mario da Brescia. L’uomo che ha sintetizzato i risultati delle ricerche di Darwin con quelli di Basaglia.

Forse, grazie a Supermario, per il nostro “relativismo calcistico” c’è davvero qualche speranza di sopravvivenza. Devo dirlo al mio amico quando torno a casa. C’è caso anche che la Nazionale di Prandelli sia già arrivata prima di me.

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