sabato 28 giugno 2014

La leggenda della Mens Sana Siena

Gli occhi di Siena sono quelli di Tomas Ress. Attoniti, persi nel vuoto lasciato dalla grande ultima impresa che è passata ad un millimetro, e se n’è appena andata via, solo sfiorata. Nel vuoto che si apre adesso davanti, al fischio finale di Luigi Lamonica. 
Sono le 23,30, Milano ha appena vinto il suo ventiseiesimo scudetto, al termine di gara 7, l’ultima, epica battaglia di una serie che rimarrà nella storia di questo sport. Alessandro Gentile scrive finalmente il suo nome sotto quello del padre Nando, 18 anni dopo. La folla, il popolo dell’Emporio Armani che ha agguantato lo scudetto dopo averlo quasi perso all’ultimo tuffo un paio di volte, si riversa sul parquet del Forum per stringersi ai suoi eroi dalle scarpette rosse.
Da una parte, ci sono gli altri eroi, quelli vestiti di biancoverde. Gli occhi di Ress sono gli occhi di tutti, sono gli occhi di una città. Siena non esiste più. Tra la Mens Sana ed il fallimento ormai non c’è più niente. Comunque fosse finita stasera, i legionari sapevano che questa era la loro ultima battaglia. Adesso, oltre al vuoto che si apre davanti – perché non c’è più una casa a cui tornare né stanotte né nei prossimi giorni per preparare la prossima battaglia – c’è il dolore della festa altrui, e la consapevolezza che per una frazione di secondo, per un giro di ferro del canestro in più, quella festa non è stata la loro.
Sarebbe stata apoteosi, l’ottavo titolo in otto anni, il nono in dieci. L’ultimo, ma vinto contro tutto e contro tutti, solo Crespi e i suoi dodici, tredici campioni, capaci comunque di mettere sotto la corrazzata Milano anche stasera e di far tremare la metropoli fino all'ultimo. A quattro minuti dalla fine Siena era sopra di sei punti. Bastava un’ultima spinta ad avversari presuntuosi che avevano dominato i primi due quarti credendo di aver già vinto. E poi si erano ritrovati sotto in un batter d’occhio. Il basket è più di altri uno sport dove la testa conta più di tutto il resto. Siena all’improvviso si era liberata delle sue paure e delle sue contratture, passandole agli avversari.
Bastava poco, ma è facile dirlo da seduti in poltrona. Agli ultimi minuti dell’ultimo quarto dell’ultima partita di una stagione lunghissima e durissima, anche quel poco è tanto. Gli schemi saltano, le squadre si affrontano come due pugili che schiantati dalla fatica cercano di darsi il colpo del KO, quasi alla cieca, con il sudore ed il debito di ossigeno che velano gli occhi, e la paura che attanaglia braccia e gambe. Le squadre, intese, come tali, non ci sono più, ci sono solo le giocate individuali, le ultime, disperate prodezze che possono fare quella differenza di un millimetro, di una frazione di secondo che sola ormai può assegnare questo scudetto che purtroppo non si può dividere in due.
Come in gara sei, a Matt Janning è capitata la palla decisiva per Siena e si è fermata sul ferro. Quella decisiva per Milano capita a Daniel Hackett, e come Jerrels due giorni prima lui non sbaglia. L’ultimo minuto non conta più, se non per misurare l’agonia di Siena. Alla sirena, per questi guerrieri in biancoverde non ci sarà nessuna consolazione, nessun premio al coraggio, né di Janning che si è preso la responsabilità di provare a vincere la madre di tutte le partite né degli altri che stavano per violare l’inviolabile Forum di Milano per la seconda volta.
Niente può consolare questi ragazzi, né i loro tifosi, se non il passare del tempo che rimargina ogni ferita. Siena lascia a Milano lo scudetto e va a seppellire la sua Mens Sana, ma anche se adesso non la consola sentirselo dire, è proprio in questa notte così amara che la città del Palio entra nella leggenda, come nessun’altra città in nessun altro sport ha mai fatto e difficilmente riuscirà a fare in un futuro immaginabile. Per dominare il basket come ha fatto lei per dieci anni ci vuole un’alchimia che per gli altri, dall’Armani vittorioso di stanotte a chiunque altro, è praticamente impossibile come la ricerca della Pietra Filosofale.

Diceva Rudyard Kipling, vittoria e sconfitta sono due impostori che bisogna imparare a trattare allo stesso modo. Ciò che conta è il “come”. Come si combatte, come si vince, come si perde. La favola bella di Siena sul tetto del basket è finita. La leggenda è appena cominciata.

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