sabato 26 luglio 2014

Ancora nel nome del popolo italiano

18 luglio 2013

Scrivevamo tempo fa, nell’articolo In nome del popolo italiano, delle non certo felici condizioni in cui versa la giustizia italiana, l’unica questione tra quelle che sono o dovrebbero essere oggetto di riforma nel nostro Paese su cui si registra – almeno nelle intenzioni – un consenso bipartisan, staremmo per dire una unanimità. Domani è l’anniversario della strage di via d’Amelio, e spiace un po’ dover sollevare l’argomento della giustizia che non funziona proprio a ridosso di un evento simile, che ci ricorda e ci ricorderà fino alla notte dei tempi che è esistito chi ha nobilitato fino ai massimi livelli la professione, anzi diciamo meglio, la missione di magistrato. D’altra parte, se una cosa non funziona, non funziona, a prescindere dall’impegno degli addetti ai lavori. Il discorso vale per tanti altri settori, dalla pubblica amministrazione all’ambito di impiego delle professioni più varie, comprese quelle aventi a che fare con la politica (anzi soprattutto loro).
Il Palazzo di Giustizia di Roma, detto il "Palazzaccio"
Dunque, la giustizia. Argomento delicato, si rischia sempre di urtare delle suscettibilità pericolose. Eppure argomento più che mai d’attualità perché non passa giorno senza che l’attualità stessa incalzi, offrendo nuove testimonianze a proposito di quanto l’amministrazione della legge sia bisognosa di essere riformata. Scrivevamo ieri a proposito delle offese del vicepresidente del Senato Calderoli alla ministro per l’Integrazione Kyenge, vicenda dai molti aspetti scabrosi che abbiamo cercato di riassumere su queste colonne. Non poteva mancare un seguito giudiziario, ovviamente. Il Codacons (ma non era un’organizzazione che per statuto si occupava della tutela dei consumatori?) ha presentato alla Procura di Bergamo un esposto-denuncia contro Calderoli per le offese razziste alla Kyenge, l’ipotesi di reato è diffamazione aggravata da discriminazione razziale.
La vicenda, se prima era scabrosa, adesso – ci sia consentito dirlo – sfiora il ridicolo. La scarsa conoscenza della legge di certi cittadini (o loro associazioni) si somma ad alcune previsioni normative formalistiche che obbligano sempre e comunque all’azione una Procura della Repubblica, a prescindere dalla fondatezza o meno della questione. Risultato? Azzardiamo un pronostico: l’unico certo sarà lo sperpero, per quanto doveroso, di denaro pubblico.
Roberto Calderoli e Cecile Kyenge
Detta in parole povere, il Codacons denuncia le offese razziste di Calderoli, il procuratore di Bergamo è costretto ad aprire un fascicolo. Che poi ne segua qualcosa, è da vedere, perché ci sono due piccoli particolari da tenere in considerazione: il primo è che si tratta di un reato d’opinione, questione assai delicata (come non ha mancato di rilevare il procuratore di Bergamo dott. Dettori) e giustamente trattata con le pinze dalla nostra stessa Costituzione; l’altro è che il presunto reo è un parlamentare, che come dovrebbe esser noto anche ai frequentanti le scuole materne, “non è perseguibile per le opinioni espresse ed i voti dati nell’esercizio delle proprie funzioni” (art. 68 Cost.). Pertanto, almeno per i prossimi cinque anni (salvo rielezione), Calderoli non è perseguibile, e se la sua Camera di appartenenza non lo autorizza, nemmeno indagabile.
La Procura ha l’obbligo dell’azione penale perché qualche cittadino l’ha messa nel mezzo, deve aprire un fascicolo ed assegnarlo a qualcuno dei suoi magistrati, che per poco o per tanto tempo ne risulterà impegnato, fino all’inevitabile nulla di fatto. Inevitabile peraltro anche la reazione dell’opinione pubblica, per quanto solo parzialmente esatta: dice, ma la Procura di Bergamo non ha nulla di più utile da fare? Certo, basta vedere la quantità di cause che ha in arretrato, come tutte le Procure. Anche il Codacons aveva qualcosa di meglio da fare, ma questo è un altro discorso. Qui interessa rimarcare che questo sistema va riformato, altrimenti la giustizia in Italia non esiste più.
Come se il sistema non fosse già abbastanza delegittimato dalle sue oggettivamente cattive regole di funzionamento, ci si mettono anche le prese di posizione di alcuni personaggi che hanno fatto parte di quel sistema, anche se forse il fatto di essere passati alla politica ha un po’ condizionato certi loro giudizi. Così, Antonio Ingroia, ex pubblico ministero di Palermo poi in aspettativa per (tentato) mandato parlamentare e poi di nuovo reintegrato in servizio (ma, come prevede la legge, nell’unica sede in cui non aveva corso alle elezioni, Aosta), ha delegittimato pubblicamente il Consiglio Superiore della Magistratura, accusandolo senza mezzi termini di aver preso una decisione “politica” per punire la sua “non omologazione”. A cosa? Lo lascia immaginare lui stesso, quando dice che il suo desiderio di seguire le orme del “maestro” Borsellino è stato frustrato ingiustamente, che la sua azione antimafia è stata pesantemente ostacolata e che il suo tentativo di passare nel campo del Potere Legislativo è stato anch’esso mal visto dal CSM e di conseguenza punito.
Antonio Ingroia
Accuse non da poco, come si vede, devastanti come il tritolo usato dalla Mafia qualche anno fa. Nel frattempo, il CSM ha disposto la rimozione del procuratore di Palermo Francesco Messineo, proprio per la sua acquiescenza con lo stesso Ingroia che a detta dello stesso Consiglio ha avuto una ricaduta negativa sull’azione antimafia, impedendo tra l’altro la cattura dell’attuale capo dei capi, quel Matteo Messina Denaro che ha raccolto l’eredità di Bernardo Provenzano. Grandi smentite di Messineo e di Ingroia, l’un contro l’altro armati e tutti e due contro il CSM. Basta così? Nemmeno per sogno, Ingroia continua con la sua azione a tutto campo. Ne ha anche per i giudici che hanno assolto il generale Mori e gli altri carabinieri imputati di essere il braccio dello Stato nella presunta trattativa con la Mafia. “Di imperdonabili sbagli a propria insaputa ne abbiamo visti fin troppi, anche i questi giorni”, ha commentato l’ex PM di Palermo. Dimenticando forse che di quel sistema che eventualmente ha sbagliato ne ha fatto parte lui stesso, fino a pochi mesi fa.
Ma l’attacco più duro al sistema, uno di quelli per cui verrebbe voglia di non credere più a niente, è stato portato recentemente da uno dei mostri sacri del mondo giudiziario italiano. Il giudice Ferdinando Imposimato è una figura di prestigio per chi ha frequentato e frequenta le aule di tribunale, e non solo. Attualmente presidente onorario aggiunto della Corte di Cassazione e addirittura candidato alla Presidenza della Repubblica per il Movimento 5 Stelle, è stato giudice istruttore di alcuni dei più importanti processi della storia d’Italia, tra cui per dirne solo due quello sull’attentato a Papa Giovanni paolo II e quello per l’omicidio di Aldo Moro, prima di darsi alla politica (eletto prima alla camera e poi al senato come indipendente nelle liste del PCI).
Proprio sul delitto Moro, Imposimato ha ritenuto opportuno rompere un silenzio quasi trentennale, svelando alcuni retroscena abbastanza gravi in un suo memoriale di recente pubblicazione e facendo riaprire il relativo fascicolo alla Procura di Roma. In sintesi, con stile pari alla tempestività, ha accusato come mandanti del delitto Moro gli ex compagni di partito Giulio Andreotti e Francesco Cossiga, i quali ebbero un interesse coincidente con quello degli Stati Uniti d’America e di alcuni loro alleati quali la Gran Bretagna, e perfino con l’Unione Sovietica (per motivi speculari a quelli delle potenze rivali).
Ferdinando Imposimato
Sull’opportunità di rivolgere accuse così gravi a due persone scomparse (guarda caso soltanto dopo la dipartita dell’ultimo dei due), ognuno tragga le sue conclusioni, morali e civili. Sull’opportunità di riaprire un fascicolo presso la Procura, crediamo si possano fare le stesse considerazioni fatte per quello aperto a Bergamo contro Calderoli. In questo caso, gli storici possono far risparmiar tempo alla magistratura inquirente, che ha senz’altro di meglio da fare. Ciò che disturba di più, è che a leggere ed ascoltare Imposimato sembra di sentir parlare non il giudice istruttore dei maggiori processi politici del XX secolo, ma piuttosto un polemista politico, che non è dato sapere quando e come è venuto al corrente di verità così importanti, e sulla base di quali riscontri.
Dire la verità, se di verità si tratta, 30 anni dopo non serve a niente, così come non servono a niente questi fascicoli aperti a giro per le varie Procure d'Italia. Servirebbe invece che la verità venisse accertata sul momento, e con criteri più oggettivi e prove più certe di quelli adottati in aula in processi - per esempio - come quello cosiddetto di Ruby, dove il PM Boccassini ha potuto smentire il teste principale sulla base di nient'altro che la propria impressione.
Un atteggiamento che potremmo definire quasi "lombrosiano", se non si corresse il rischio di offendere il grande studioso veronese. Oppure servirebbe capire qualcosa di più su vicende come quella degli Ablyazov, i dissidenti kazaki rimpatriati con il beneplacito della Procura di Roma. Vicende molto più attuali, di sicuro significativa della sorte che potrebbe toccare non solo a Berlusconi o a presunti amici o nemici di Berlusconi, ma anche a chiunque di noi in circostanze analoghe. Vicende per le quali (come per altre) non vorremmo dover aspettare 30 anni prima che qualcuno che già adesso conosce la verità ritenga giunto il momento di dircela.

Non è questa la giustizia di cui i cittadini possono aver fiducia, ora come tra 30 anni nel futuro. Questa giustizia va soltanto riformata, radicalmente. Esserne consapevoli è l’unico modo per commemorare degnamente l’anniversario di domani.

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