lunedì 14 luglio 2014

DIARIO MUNDIAL: La Germania, da Tacito a Schweinsteiger

Germania. Per la prima volta ne scrisse Tacito, e fu un best seller, che aprì la porta del mondo romano su un universo fino allora completamente sconosciuto se non a chi l’aveva visitato al seguito delle Legioni. A quell'epoca loro erano i barbari, noi il mondo civilizzato, che tuttavia di lì a poco avrebbe mostrato le prime crepe.
Da allora le cose sono cambiate, anche se su ciò che c'é al di là del Reno non ne sappiamo molto di più. Dei tedeschi sappiamo quello che ci hanno raccontato i nostri padri e i nostri nonni, e sono racconti che parlano di sopraffazione, orrore, sangue e distruzione. Un po’ come quelli degli storici successivi a Tacito, quelli del tardo impero che veniva spazzato via dalle orde dei Vandali e dei Visigoti. Oppure quello che riportano i nostri emigrati, e sono spesso racconti infarciti di sofferenza, umiliazione, fatica, disprezzo.
Sappiamo questo e poco altro. Il giornalismo si discosta raramente dai cliché. Quello tedesco è fermo agli spaghetti con la P38, quello italiano non va oltre il samba e il Carnevale di Rio se si parla di Brasile, della Bundesbank e della Cancelliera di Ferro Merkel se si parla di Germania. I tedeschi li conosciamo bene solo perché li incontriamo sui campi di calcio, ed è una storia che fino ad ora era per noi a lieto fine. Troppo lieto per essere vero.
Giocano la Germania e l’Argentina, noi prendiamo l’Argentina, istintivamente. Successe già nel 1990, all’epoca delle notti magiche finite male per colpa della papera di Zenga e di Donadoni che non sapeva tirare i rigori. Per colpa di Maradona, gran giocatore ma odioso sobillatore della gente di Napoli. In finale, la voglia di fischiare l’inno argentino e di tifare Germania era tanta. Mio padre mi sorprese, “tifare Germania è concettualmente impossibile”, mi disse, liquidando la questione.
Per lui la Germania era rimasta la Wehrmacht, il nonno che rimase mesi sul tetto di casa per non essere rastrellato dai nazisti e portato in Germania a lavorare come schiavo, o peggio. Era l’attraversamento delle linee per andare a prendere la farina al mercato nero in campagna, lui bambino di 10 anni e il nonno che in quei casi era costretto ad abbandonare il rifugio, se no la famiglia non mangiava. Era Italia-Germania 4-3, la volta che avevamo rialzato la testa spezzando la schiena ai crucchi che nel dopoguerra avevano rialzato la loro troppo presto.
C’è poco da fare. L’Argentina è un paese lontano per me che non ho parenti emigrati. Dall’altra parte del mondo, senza legami con la mia vita se non per un paio di calciatori di nome che hanno giocato nella Fiorentina. Eppure, io che sono nato 15 anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, io che non ho parenti emigrati in Germania, prendo l’Argentina senza esitazioni. Mi sembrerebbe di tradire il mio sangue e generazioni della mia famiglia, del mio popolo. Per me è così, per tanti altri italiani anche. Nella prossima vita si vedrà, in questa tifare Germania è concettualmente impossibile. In ogni campo e in ogni sede.
Non sono un popolo che si fa amare, i tedeschi. Anche dopo che hanno dismesso le mostrine della Wehrmacht o delle SS, la loro apparenza non ci piace, a pelle. Nemmeno quando li abbiamo vicini di ombrellone. Dopo la riunificazione e l’Euro, poi, la Germania è tornata ad essere vissuta come un pericolo. Non più militare, ma economico. Cambia niente, Hitler ci voleva soggiogare con i carri armati, la Merkel con i bond.
Di loro sappiamo quel poco che conferma la nostra istintiva repulsione, e basta. Non filtra per esempio che dai tempi di Tacito forse le parti si sono invertite, loro sono i più civili, quelli che hanno fatto approvare per esempio la legge sul salario minimo garantito. Noi siamo diventati i barbari, quelli che ormai si fanno governare da Jenny ‘a carogna o da dei parolai senza fine. Senza vergogna e senza controllo.
Ci riempiva d’orgoglio guardarli dall’alto in basso, noi che stavamo con loro 4-3 non solo all’Azteca di Città del Messico, ma anche nel conto complessivo dei mondiali vinti. Noi che con loro abbiamo sempre vinto quando c’era in palio qualcosa, l’ultima volta li abbiamo fatti piangere due anni fa. Da allora, loro con la stessa squadra hanno vinto il mondiale, noi siamo andati fuori al primo turno. Loro forse hanno tirato un sospiro di sollievo per non aver incontrato la bestia nera Italia sul cammino per il Maracanà (hai visto, o rivisto, mai….), noi abbiamo fatto altrettanto perché con l’Armata Brancaleone che avevamo stavolta non si sa come sarebbe andata a finire. Meglio uscire prima.
Loro hanno alzato la Coppa che gli portammo via da casa loro nel 2006, pareggiando i conti con Italia 90 e ritornando in vantaggio 4-3. Adesso sono in vantaggio loro, perché a parità di mondiali vinti loro hanno molti piazzamenti in più. Su 17 partecipazioni, 13 volte sono arrivati almeno in semifinale. Noi 7 volte sole. Loro hanno giocato 8 finali, noi 6. Solitamente, o si vince o si va fuori al primo turno. La Germania invece in fondo ci arriva quasi sempre.
Al Maracanà hanno vinto prendendosi tutti i record che erano l’orgoglio del Brasile. Prima squadra europea a vincere in Sudamerica, come il Brasile aveva fatto in Europa nel 1958. La Spagna è stata la prima a vincere fuori continente, ma il tabù dell’America Latina l’hanno rotto loro, e con sette schiaffoni a domicilio ai presunti e presuntuosi padroni del calcio mondiale. Il capocannoniere mundial non è più Ronaldo, che ormai fa la pubblicità al gioco d’azzardo, grasso come un’oca da paté. E’ Miroslav Klose, che al quarto mondiale e a 36 anni è più fresco e pimpante di quando esordì in Corea. E che ha eclissato perfino il ricordo di una leggenda come Gerd Muller, tedesco anche lui.
E poi c’è la quarta stella, quella di cui credevamo di avere l’esclusiva, al punto di stare a cantare sull’albero come le cicale disperdendo il nostro patrimonio di giovani calciatori, mentre le formiche tedesche programmavano la loro riscossa tirando fuori una golden generation con pochissimi precedenti nella storia.
Philip Lahm alza la quarta coppa, come Fritz Walter alzò la prima, Paul Breitner la seconda e Klaus Augenthaler la terza. Di questi quattro deutscherteam, forse proprio quello attuale è il più forte. Nel 1954  batterono a sorpresa la Grande Ungheria, ma su quel successo è rimasta l’ombra del doping, perché Walter & C. finirono misteriosamente in ospedale il giorno dopo la finale. Quelle voci non si sono mai sopite.
Nel 1974 furono abbastanza forti da sorprendere la leggendaria Olanda di Cruyff, che pensava di dover vincere per diritto divino e volontà del Fato. E’ opinione comune che se quella partita si rigiocasse 100 volte, 100 volte vincerebbero gli Orange. Invece quella volta vinsero loro.
Nel 1990 fu l’Italia di Vicini a farsi sorprendere dall’Argentina, altrimenti la vita in finale per i tedeschi, ancora dell’Ovest, sarebbe stata assai più dura. Fu una brutta finale tra Germania e Argentina, finita 1-0 come quella di ieri ma giocata molto peggio. Una conclusione indegna delle notti magiche che piacque solo ai diretti interessati, che per la prima volta si ritrovarono uniti a festeggiare sotto la Porta di Brandenburgo.
Stavolta non ci sono discussioni, erano loro i più forti. Poteva vincere l’Argentina se al posto di Messi avesse avuto un fuoriclasse vero come Maradona, o se al posto di Higuain avesse avuto un centravanti vero come Mario Kempes o Jorge Valdano. Quattro occasioni da rete la Germania non le aveva concesse a nessuno. Gol sbagliati gol subito, perché invece alla grande squadra di occasioni gliene basta una. Goetze, come Iniesta, era un predestinato. Nessuno degli argentini lo era.

Il 4-3 è finito. Si chiude un’epoca lunghissima nata sull’onda lunga del gol di Rivera. Per tornare avanti – se mai ci torneremo – con i tedeschi dovremo inventarci qualcosa di miracoloso. Solo otto anni fa sopra Berlino c’era un cielo azzurro. Adesso è bianco, e sopra tutto il mondo. Siamo quattro pari, ma a ben guardare le nostre stelle non brillano più.

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