venerdì 25 luglio 2014

Una concordia di breve durata?

18 settembre 2013

«Questa dimostrazione di capacità tecnica e organizzativa che stiamo offrendo alla pubblica opinione mondiale riscatta l’immagine di un’Italia approssimativa e cialtrona e mi inorgoglisce profondamente». Con queste parole Gregorio De Falco, comandante della Capitaneria di Porto di Livorno, ha riassunto ieri il sentimento di una nazione intera nelle fasi cruciali del recupero della Costa Concordia dal rovinoso (anche per l’immagine del nostro stesso paese) naufragio di 20 mesi fa.
Ce lo siamo sempre detti, noi italiani tiriamo fuori il meglio di noi stessi soltanto nei momenti in cui ci ritroviamo con le spalle al muro, quando il resto del mondo scuote la testa con disprezzo assistendo alle situazioni incresciose in cui andiamo a metterci con le nostre stesse mani. Proprio allora arriva puntuale lo scatto d’orgoglio, il colpo di reni che ci riporta a testa alta, a sollevare la Coppa del Mondo o comunque a recuperare un’immagine che sembrava irrimediabilmente compromessa.
Nelle stesse ore dell’impresa della Concordia, il commissario europeo Olli Rehn, che si trova nel nostro paese per una audizione parlamentare, ha commentato l’attuale situazione politica ed economica italiana con parole che pur scatenando le immediate e prevedibili reazioni di un mondo politico sempre pronto a riscoprire l’orgoglio nazionale solo quando coincide con il suo interesse di parte hanno fotografato l’immagine dell’Italia altrettanto bene delle parole del Comandante De Falco. «L’Italia è come la Ferrari per stile e capacità, ma ora le occorre un motore più competitivo, inutile perdere tempo ai pit stop».
Già, il cittadino italiano che ieri si è inorgoglito per il lavoro dei suoi tecnici e delle sue imprese nel recupero del Titanic dei nostri tempi, che aveva smadonnato non poco la domenica precedente per l’ennesima figuraccia della Scuderia del Cavallino Rampante (attardata dal cattivo sviluppo di una macchina non all’altezza del pilota fuoriclasse che la guida, nonché da una strategia fatta di piccolezze, meschinità da automobilisti della domenica che cercano furbescamente di passare prima degli altri al casello autostradale), è lo stesso che osserva attonito l’evoluzione, o per meglio dire l’involuzione di questa XVI legislatura e della crisi politica ed economica che essa non prova neanche a gestire, meno che mai a risolvere. E’ lo stesso anche che puntualmente ad ogni consultazione elettorale manda a Montecitorio e Palazzo Madama una classe politica tra le più neglette della storia mondiale, salvo poi lamentarsene.
Enrico Letta e Giorgio Napolitano
Ogni popolo ha il governo che si merita, diceva un vecchio adagio. La Ferrari ha gli ingegneri che si è scelta, così come l’Italia ha la classe politica che ha votato liberamente. Il paese che lunedi ha tradotto nella realtà in mondovisione un kolossal tra i più spettacolari di sempre è lo stesso che non riesce ad organizzare un minimo di gestione della cosa pubblica che si discosti dal ridicolo. «Se il ridicolo uccidesse, in Italia ci sarebbe una strage», diceva Indro Montanelli. E’ questo che ci meritiamo, l’eterna dicotomia tra l’altare e la polvere, tra le stelle e le stalle, tra il ridicolo e l’orgoglio, tra Francesco Schettino, comandante che abbandona la nave e i suoi passeggeri, e Manrico Giampedroni, ufficiale di bordo che rischia di rimanere intrappolato nel relitto con una gamba rotta perché anziché fuggire come il suo comandante scende una volta di più nella stiva a controllare che non ci siano rimasti passeggeri?
Olli Rehn è finlandese, viene da una realtà in cui lo stato sociale è da tempo un valore acquisito e consolidato, al pari della corretta gestione di bilancio. Che ci paragoni ad una Ferrari è già tanto, i nordici solitamente non ci amano, troppo distante il Belpaese con il suo casino esistenziale dalla Scandinavia Felix con il suo rigore protestante. Le sue parole peraltro misurate hanno già scatenato un putiferio, dal PDL al Movimento Cinque Stelle l’uscita del caporale di giornata Rehn è stata stigmatizzata come l’ennesima ingerenza europea nei nostri affari interni. Come se l’entrata in Europa, in questa Europa ingessata da Maastricht e da Schengen non fosse stata decisa liberamente da un governo altrettanto liberamente eletto dagli italiani. Quello di Romano Prodi e dell’Ulivo, per chi non lo ricordasse.
Oli Rehn
Queste sono le estreme conseguenze, fino all’essere diventati il lebensraum della Germania di Angela Merkel e a subire gli ultimatum sui conti in pareggio di qualunque commissario UE che si trovi a passare di qui, come gli scapaccioni che prendevamo da piccoli ad ogni pié sospinto da genitori meno comprensivi di quelli di adesso. Mal voluto non è mai troppo, recitava un altro adagio. Mal voluto e reiterato, verrebbe da aggiungere. Il governo Letta prende la palla lanciata da Rehn al balzo per ventilare l’aumento dell’IVA al 22% a coprire il mancato introito dell’IMU da esso stesso deliberato. Delle promesse elettorali fatte da dieci e passa liste non si ricorda più nessuno. Il PDL si preoccupa di salvare il suo leader, in sede di trattativa finale accetterebbe qualsiasi cosa. Il PD si preoccupa di sostituire lo smacchiatore di giaguari con il sindaco “asfaltatore”, Letta faccia pure quello che crede nel frattempo, compreso lasciarsi sfuggire in un lapsus freudiano che l’attuale sistema si regge soltanto su lui stesso e Re Giorgio del Quirinale. Il Movimento Cinque Stelle sembra Beppe Grillo dopo essere stato buttato fuori dalla Rai: sparito.
E’ un sistema-paese che da vent’anni si regge solo sul pro o contro Berlusconi. Anche adesso, nella sua crisi probabilmente finale (del sistema-paese, non di Berlusconi), con migliaia di profughi che si riversano ogni giorno sulle sue coste e sulla sua economia da raschio del fondo del barile, l’Italia si ferma per votare l’ineleggibilità di un leader politico che viene eletto da vent’anni al Parlamento a larghissimo consenso. La sensazione è che a questa Italia – come alla Ferrari – serva ben più di un motore, bisogna rifare tutto, dalla catena di montaggio dei singoli pezzi fino all’amministratore delegato. Fino alla proprietà stessa, che nel caso del paese coincide con il popolo.

Centocinquantadue anni dopo l’Unità d’Italia, gli italiani restano ancora da fare, per dirla con la buonanima del Conte di Cavour. Godiamoci il successo della Concordia, e l’orgoglio che giustamente ci ha provocato. Giorni così, da queste parti, è destino forse che se ne vedano pochi. 

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