sabato 19 luglio 2014

A Via d'Amelio morì la speranza

E’ l’altro anniversario con cui ogni anno si chiude il cerchio doloroso della nostra memoria civile. La rabbia e l’orgoglio che proviamo da 25 anni a questa parte cominciano ad acuirsi il 23 maggio e raggiungono l’apice il 19 luglio. Il fragore assordante innescato dalla mano omicida della Mafia comincia a Capaci e finisce a Via d’Amelio a Palermo. La lista dei nostri martiri si apre con Giovanni Falcone e si chiude con Paolo Borsellino.
Nel mezzo, una lunga lista di caduti per far sì che questo paese in cui ci siamo ritrovati a vivere fosse un po’ più simile a come l’avevamo desiderato. Da Cesare Terranova a Carlo Alberto dalla Chiesa, da Rocco Chinnici a Rosario Livatino, da Boris Giuliano a Ninni Cassarà, ai tanti, troppi agenti delle loro coraggiose ma inutili scorte. Inutili, perché i loro nemici sapevano tutto prima di loro e più di loro, prima ancora che loro si muovessero.
Ad aprire e chiudere – si è detto - loro due, che ci ricorderemo sempre come li ritrae, fianco a fianco, la loro foto insieme più famosa, quella in cui sorridono apparentemente spensierati, come se una minaccia mortale non fosse stata costantemente sospesa sopra le loro teste. Perché, come erano soliti dire, “chi ha paura muore ogni giorno, chi non ce l’ha può morire una volta sola”.
Se Paolo Borsellino nei suoi ultimi giorni di vita aveva un po’ di umana paura, per sé e per i suoi cari, non lo dette a vedere, e non rallentò di un millimetro la sua azione. Nella sua agenda rossa (che è scomparsa da 25 anni, da quando cioè pochi minuti dopo la strage in cui scomparve lui stesso una mano misteriosa – che molti sospettano essere appartenuta ad un servitore, almeno di nome, di quello Stato che stava trattando con la Mafia che avrebbe invece dovuto combattere – la sottrasse insieme alla sua borsa miracolosamente illesa insieme a poche altre cose in quella strada devastata dal tritolo), l’ultimo dei giudici coraggiosi aveva continuato ad annotare fino all’ultimo momento concessogli prove e indizi di quella trattativa innominabile, di ciò che aveva scoperto sulla morte del suo amico e collega Falcone, di tutto ciò che poteva avvicinare le Forze dell’Ordine a mettere le mani sul Capo dei Capi, Totò Riina detto u curtu, il boss di quei Corleonesi che dopo essersi impadroniti di Cosa Nostra sterminando tutti i rivali, in quel momento sembravano aver messo in ginocchio tutta l’Italia.
Come faceva appena poteva, il giudice si recò quella domenica 19 luglio 1992 a fare visita alla madre, che viveva in Via d’Amelio. Dopo aver pranzato per l’ultima volta con moglie e figli, nel primo pomeriggio Borsellino suonò il campanello della madre. Era il momento per cui i killer mafiosi si erano preparati. Una 126 imbottita di semtex e tritolo, una miscela di esplosivi a potenziale devastante, fu fatta esplodere proprio in quel momento, portandosi via il giudice ed i cinque agenti della sua scorta, Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Eddie Cosina e Claudio Traina. Un sesto agente, Antonino Vullo, si salvò solo perché in quel momento stava ancora parcheggiando uno dei veicoli della scorta.
Ai funerali di Borsellino, che la moglie Agnese pretese fossero svolti in forma privata senza la partecipazione di nessun rappresentante di quello Stato che, come minimo, non aveva saputo proteggere suo marito, una folla commossa e composta si limitò ad applaudire l’orazione funebre tenuta dal vecchio giudice Antonino Caponnetto, il direttore del Pool Antimafia in cui Borsellino e Falcone avevano lavorato. Diversamente era andata qualche giorno prima ai funerali degli agenti di scorta, nella Cattedrale di Palermo, quando un cordone di 4.000 agenti non era bastato a trattenere una folla inferocita che sembrò avventarsi perfino contro il neo-eletto Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. Tutti hanno ancora negli occhi l’immagine del capo della Polizia Parisi che, stravolto, cerca di fare scudo con la propria persona a quella del Presidente, che uscì incolume dal tumulto quasi per miracolo.
Antonino Caponnetto, che alla notizia della morte di Borsellino aveva commentato a caldo, sconsolato, “non c’è più speranza….”, raccontò poi come 20 giorni prima di essere assassinato lo stesso Borsellino avesse richiesto, inutilmente, la rimozione di tutti i veicoli parcheggiati in Via d’Amelio nei pressi dell’abitazione della madre, e di non aver potuto egli stesso sapere a distanza di anni nemmeno il nome del funzionario che si rifiutò di accogliere la richiesta del collega. 
Dopo 25 anni, sono ancora tante le cose del resto che aspettiamo tutti di sapere, dalla verità su questa trattativa tra la Mafia e lo Stato, per la quale sono stati finora processati (e giustamente assolti) soltanto dei Carabinieri che al limite ne avevano potuto solo eseguire le direttive, fino ai nomi di tutti coloro che parteciparono attivamente sia come mandanti che come esecutori alla strage di via d’Amelio, o che anche soltanto vi collaborarono lasciando solo il giudice coraggioso che con la Mafia non voleva trattare e che per questa gente non era un esempio, ma solo un ostacolo da rimuovere.

Pochi mesi dopo, il Capo dei Capi fu preso in pieno centro di Palermo dagli uomini del reparto dei Carabinieri denominato CRIMOR, comandato dal Capitano Ultimo. Qualcosa si era finalmente mosso, e l’Italia – persi Falcone e Borsellino – ebbe comunque di nuovo degli eroi da celebrare e con cui continuare la lotta mortale al crimine organizzato e alle sue collusioni con lo Stato. Ma questa è un’altra storia, e vale per un altro anniversario.

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