giovedì 14 agosto 2014

L'uomo del Cavallino Rampante

«Se lo puoi sognare, lo puoi fare». Era una delle frasi preferite dell’Ingegnere, come lo chiamavano per brevità (e rispetto) i suoi collaboratori. Lui di sicuro i suoi sogni li aveva realizzati tutti, prima di andarsene alla veneranda età di 90 anni un 14 agosto di 26 anni fa. Non era il momento migliore per quella sua creatura che portava il suo nome, e il cui marchio era diventato nel frattempo leggenda, con lui ancora vivo. La ripresa non era lontanissima, ma non era neanche dietro l’angolo. Non era un uomo felice quando chiuse gli occhi l’ultima volta, troppi dolori nella sua vita. Ma di sicuro aveva un grandissimo orgoglio per come l’aveva vissuta. Per dove era arrivato e per come ci era arrivato.
Enzo Anselmo Ferrari era nato a Modena il 18 febbraio 1898, ma a causa di una violenta nevicata suo padre Alfredo, un meccanico che lavorava per le Regie Ferrovie, era potuto andare a registrarlo all’Anagrafe soltanto due giorni dopo. Fu l’unica volta in tutta la sua vita in cui l’uomo il cui nome sarebbe diventato sinonimo di velocità sarebbe arrivato in ritardo da qualche parte. Fin da ragazzo fu affascinato dalle corse automobilistiche, il nuovo mito nascente del Ventesimo secolo, non solo sportivo. I Futuristi, la corrente letteraria che andava per la maggiore, cantavano le gesta epiche dei cavalieri del volante. La macchina da corsa insieme al cavallo di ferro, al treno, era il simbolo di un paese e di una generazione che lottavano per uscire dai secoli bui e immutabili della vita contadina. Tutto si era messo improvvisamente a correre, quando il giovane Enzo Ferrari si affacciò all’adolescenza, diventando corrispondente per la Gazzetta dello Sport dalla sua città e cominciando a prendere confidenza con i motori sulla vettura di famiglia, una Diatto 3 litri.
Tutto correva, ma non sempre nella direzione giusta. Negli anni convulsi e drammatici della Prima Guerra mondiale, Enzo perse a breve distanza il padre ed il fratello maggiore, Alfredo junior. Una pleurite in compenso lo salvò dalle trincee, e lo rimandò a casa, orfano e disoccupato. La storia ha strani incroci a volte. Una delle prime porte a cui bussò per trovare lavoro fu quella della FIAT, affermatasi nel frattempo come la massima industria italiana grazie alle commesse di guerra ed alla nascente motorizzazione del Regno d’Italia. Ottenne un rifiuto, e per tutta la vita se lo sarebbe ricordato, non riuscendo mai a nutrire sentimenti veramente positivi per quella che sarebbe diventata un giorno la sua partner d’eccellenza.
Fu assunto alla fine da una piccola impresa meccanica di proprietà di un amico, e con essa cominciò a correre. Dal 1920 entrò nella scuderia corse Alfa Romeo. Nel 1923 arrivò la prima vittoria, al Gran premio del Circuito del Savio, nei dintorni di Ravenna. Con la Coppa, arrivò anche qualcosa di ancora più importante. Alla corsa aveva assistito la contessa Paolina Biancoli, madre di Francesco Baracca, il leggendario pilota di aviazione italiano eroe e vittima della Grande Guerra. Fu talmente colpita da quel pilota d’auto così giovane, che forse le ricordava il figlio, da fargli dono di quel simbolo leggendario che l’asso dell’aria aveva avuto fino alla sua ultima missione sulla carlinga del suo aereo: «Ferrari, metta sulle sue macchine il cavallino rampante del mio figliolo. Le porterà fortuna».
La leggenda di Enzo Ferrari cominciò così, e lo portò ad attraversare tutto il Ventesimo Secolo fino a diventare il prodotto migliore, più prestigioso di quel Made in Italy di cui una volta c’era di che essere giustamente orgogliosi. Dopo gli anni dell’Alfa, nei quali corse accanto a miti come Nuvolari, Campari, Ascari, dopo il ritiro della prestigiosa scuderia milanese dalle corse e la decisione di fondare una prima azienda personale, l’Auto Avio Costruzioni (sopravvissuta alla Seconda Guerra Mondiale grazie al trasferimento nello stabilimento decentrato di Maranello), nel 1947 decise di dare il proprio nome alla propria scuderia. Non poteva immaginare, ma forse allora soltanto sognare di avere fondato la squadra corse più famosa e prestigiosa di tutti i tempi, quella che avrebbe prodotto da allora in poi le macchine più belle, vincenti, e desiderate da tutti, sportivi e non, la Nazionale Rossa per tutti gli italiani appassionati di corse automobilistiche, la Scuderia del Cavallino Rampante: la Ferrari, appunto.
Nel 1950 prese il via il Campionato Mondiale di Formula Uno. All’inizio la rediviva Alfa Romeo fece pagar dazio a tutti, poi il figliol prodigo di Maranello la mise in riga. Il primo Gran premio fu vinto dalla Ferrari a Silverstone, in Gran Bretagna, nel 1951 con Froilan Gonzales. Il primo titolo mondiale arrivò l’anno dopo con Alberto Ascari. Da allora, Enzo Ferrari avrebbe visto trionfare i suoi piloti 9 volte, e 15 la sua casa costruttrice.
Enzo Ferrari con Niki Lauda e Luca Cordero di Montezemolo
Grandi gioie, ma anche grandi dolori, non fossero bastati quelli che avevano funestato la sua adolescenza. Il figlio Dino gli morì nel 1956 a causa della distrofia muscolare. Piloti che aveva amato come figli, Alberto Ascari, Lorenzo Bandini, Gilles Villeneuve morirono mentre correvano al volante di una sua monoposto. Ad un quarto, Niki Lauda, colui che riportò il titolo mondiale a Maranello nel 1975 dopo un digiuno di 14 anni, andò bene per miracolo, nel rogo del Nurburgring il 1° agosto 1976.
Ebbe una vita privata molto tormentata anche dal punto di vista sentimentale, il suo secondo figlio Piero nacque da una relazione extraconiugale con Lina Lardi, e fu riconosciuto soltanto in età adulta. Enzo Ferrari è sepolto a San Cataldo di Modena, vicino alla tomba del figlio Dino, a cui è intitolato l’autodromo di Imola, sede del gran premio di San Marino. Dopo la sua scomparsa, la guida della scuderia fu di fatto assunta dall’Avvocato, quel Gianni Agnelli che era diventato partner economico dell’Ingegnere fin dalla fine degli anni sessanta, che proprio in quella circostanza aveva lanciato il giovane manager Luca Cordero di Montezemolo, all’epoca del vittorioso mondiale di Niki Lauda e Clay Regazzoni.

La Ferrari doveva attendere per un lungo periodo, assai più lungo di quello intercorso tra John Surtees e Niki Lauda, prima che Michael Schumacher succedesse al Jody Scheckter vittorioso nel 1979, tornando a tingere tutto il mondo di rosso. Il resto, più che storia, è leggenda.

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