martedì 30 settembre 2014

La battaglia dell'articolo 18

La battaglia per l’art. 18 sembra proprio quella decisiva. L’ultima frontiera su cui si gioca non solo l’avvenire del partito democratico ma anche quello del paese che sta governando. E non per fattori strettamente economici, ma soprattutto per fattori politici, o meglio ancora attinenti alla psicologia di massa.
Gli schieramenti che si stanno delineando, due campi fieramente avversi che non dialogano come francesi e spagnoli prima della decisiva battaglia di Rocroi nel 1643, fanno capo alle due Italie che si confrontano ormai da anni, da quando è cominciata questa crisi economica epocale: quella che ha tutto da perdere e quella che da perdere non ha più niente. Con un attore sulla scena in grado di mischiare le carte e sparigliare sia quelle già calate che quelle da calare.
Da quando è apparso sulla scena politica, Matteo Renzi è stato individuato da molti come il Tony Blair italiano, colui che può riportare in auge la sinistra attingendo anche all’elettorato di destra. Da quando un Presidente della Repubblica che forse sogna di assistere nei suoi ultimi anni ad un ritorno strisciante (ma neanche tanto) alla Prima Repubblica dei suoi anni verdi gli ha conferito l’incarico di Presidente del Consiglio, Renzi si è impegnato in una battaglia epica: riformare un paese e la sua economia distorta (o almeno darne l’impressione) a scapito di poteri forti, rendite di posizione e nomenklature. A cominciare da quella che guidava il suo stesso partito e vorrebbe tornare a farlo. Soprattutto da quella.
Dopo mesi di discussione, il Jobs Act sembra sul punto di arrivare in discussione in Parlamento. Scocca l’ora dell’art. 18, o per meglio dire della sua morte probabile. “Un datore di lavoro deve avere la possibilità di licenziare”, è lo slogan semplice del Premier, che ieri ha affrontato il fuoco dei suoi “compagni” di partito in attesa di sottoporsi a quello (ancora più insidioso) delle Camere.
La vecchia guardia è uscita allo scoperto, il direttivo si è spaccato in due, anche se poi il plenum della Direzione ha gratificato il Segretario-Presidente di un 86% di consensi che avrebbe del clamoroso se non si dovesse tener conto di una serie di fattori, tra i quali la probabile esasperazione della stessa base del PD nei confronti di una classe dirigente sopravvissuta a troppe epoche storiche e anche una valutazione delle ragioni della crisi da affrontare che in questo momento magari non ha chiaro cosa è meglio fare, ma ha invece chiarissimo cosa bisogna disfare.
Ha un bell’arringare la platea il vecchio inossidabile Massimo D’Alema con il richiamo ai precetti del Premio Nobel per l’Economia Joseph Stiglitz, «il mercato del lavoro non si riforma quando c’è recessione, ma quando c’è crescita. Sentire un presidente del consiglio dire “è giusto che il padrone possa licenziare” è una cosa che non induce esattamente al consumo ». Il professore della Columbia University, ex consigliere economico del Presidente Clinton, ha sicuramente meno presa sulla platea dei delegati PD del Segretario affabulatore che cerca di portare a casa finalmente un risultato concreto, dopo tante promesse fatte fin dai tempi della Leopolda e finora di là da mantenere.
«Non siamo un club di filosofi – ribatte Renzi - ma un partito politico che decide. In Italia il Pd è il punto di riferimento di una sfida che tende a cambiare l’Italia e l’Europa. Siamo il partito più grande dell’Europa. Gli italiani ci hanno detto che l’Italia la deve cambiare il Pd. (….) A me non preoccupano le trame altrui, è normale che qualcuno abbia timore di vedersi spodestato dal panorama politico italiano e cerchi di riprendersi il proprio posto. Non chiamiamoli poteri forti, visto che sono stati sconfitti da noi. Chiamiamoli poteri aristocratici.».
E’ una risposta a tanti, da Diego della valle che lo ha accusato pochi giorni fa di “essere una sola”, poiché con quei poteri forti lui “ci va a braccetto” (con riferimento al recente viaggio del Premier a Detroit da Marchionne) ai suoi compagni-avversari della vecchia guardia PD. Cuperlo lo accusa senza mezzi termini di essere una riedizione in brutta copia della Sig.ra Thatcher, Bersani parla addirittura di “metodo Boffo” (’espressione entrata nel lessico della politica italiana, come sinonimo di campagna di stampa basata su illazioni e bugie allo scopo di screditare qualcuno per ragioni politiche).  Renzi ribatte a suo modo buttandola sull’ironia toscana, dicendo di aver a volte usato semmai un “metodo buffo”.
Alla fine la Direzione gli tributa un plebiscito bulgaro e sconfessa i reduci della vecchia Cosa post-comunista. La parola passa al Parlamento, il gruppo PD di Palazzo Madama è convocato per martedi prossimo. E ai sindacati, che a quanto pare stanno ritrovando una unità di intenti quale non si vedeva da tempo immemorabile. Camusso, Furlan e Angeletti stanno riportando in auge la storica Triplice dei tempi di Lama, Carniti e Benvenuto proprio sul terreno dello scontro in difesa dell’art. 18. Con quali risultati è un’incognita assoluta.
Nel frattempo, il PD almeno a livello di vertice mostra delle crepe che possono far pensare anche a sviluppi clamorosi. La lunga storia cominciata al Teatro Goldoni di Livorno con la scissione del 21 gennaio 1921 potrebbe anche trovare conclusione in un’altra scissione che a questo punto sarebbe altrettanto clamorosa. D’Alema, Bersani, Finocchiaro, Cuperlo sembrano altrettanti generali di uno stato maggiore assediato in un bunker e potrebbero decidere di non aspettare la fine là dentro.

Ancora una volta, le due anime della sinistra italiana potrebbero arrivare presto alla resa dei conti.

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