mercoledì 2 aprile 2014

RENZIADE: Senatus PopolusQue Italicus



C’è qualcosa di posticcio, di arrangiato e raffazzonato come per una recita parrocchiale nell’improvviso (e tardivo) sussulto di democrazia liberale che la nomenklatura della Seconda Repubblica ha opposto alla Terza nascente. Già prima che il Consiglio dei Ministri desse il via libera al disegno di legge di riforma costituzionale del Senato e del Titolo V° della Costituzione, alcuni autorevoli rappresentanti delle istituzioni – ma forse, sarebbe il caso di dire, soprattutto di se stessi – sono insorti al grido di libertà contro la minaccia di svolta autoritaria in procinto di essere impressa all’assetto istituzionale dal Presidente del Consiglio Matteo Renzi.
Il disegno di legge di Renzi tiene fede alle promesse fatte all’atto del suo insediamento, e nello stesso tempo rappresenta un compromesso potenzialmente efficace tra la voglia di cambiamento ormai espressa a gran voce dal paese e la voglia di status quo malcelatamente sottintesa dalla Casta che ormai non lo rappresenta più; tra quel patto sottoscritto pochi mesi fa con il leader dell’opposizione (o partner di governo effettivo?) Silvio Berlusconi e la prevedibile battaglia nella jungla contro quei Thugs, moltissimi in tutti gli schieramenti, che a casa non ci vogliono andare e che invece presto dovranno votare per andarci.
Dunque, il disegno di legge proposto dal Governo trasforma il Senato in organo sempre di rango costituzionale ma non più elettivo, bensì designato nei suoi membri dai Consigli Regionali , (e  qui sta uno dei colpi di genio di Renzi, che non snatura eccessivamente l’attuale previsione della Carta fondamentale dove è stato previsto che la cosiddetta Camera Alta sia espressa appunto su base regionale) fino alla concorrenza di 127 membri, espressi in numero eguale da ciascuna regione a prescindere dalla sua popolazione (interessante omaggio al Senato americano) e 21 nominati direttamente dal Quirinale (interessante tentativo di spuntare le armi, prevedibilmente affilate ed ostili, del suo attuale inquilino).
L’assemblea di Palazzo Madama ormai è vista come una delle principali pietre dello scandalo per chi (in sintesi buona parte della popolazione) avverte ormai la presenza dello Stato, dei suoi organi di vertice e della sua burocrazia come una pesante cappa di piombo che sta affamando ed uccidendo il paese. Lungi dall’essere diventata quella “Camera di decantazione” delle passioni politiche a vantaggio di una legislazione più equilibrata che i Padri Costituenti avevano immaginato – pur con qualche perplessità già allora – nel 1947, il Senato nella storia delle due Repubbliche italiane è spesso diventato la “Camera di rallentamento” di qualsiasi significativo progetto di riforma di un paese sempre indietro rispetto al fabbisogno di modernità impostogli dai tempi.
La Camera Alta raddoppia i costi (ingenti) della politica, ne decuplica i difetti e ne procrastina gli effetti dei pregi, tanti o pochi che siano. E’ il luogo dove “si fanno i conti”, dove i franchi tiratori tendono gli agguati, dove si affossano i provvedimenti scomodi sempre e comunque. Scomodi per la Casta ovviamente, mentre quelli che lo sono per le tasche dei cittadini procedono oltre con una velocità che oltraggia spesso quella “volontà di saggezza” auspicata dai padri Costituenti. E’ un inutile raddoppio, come minimo, dei tempi dei procedimenti legislativi, e non è un caso che la civile Inghilterra, patria della democrazia liberale e del parlamentarismo, abbia da tempo esautorato la Camera dei Lords, senza peraltro che la libertà nel Regno Unito ne soffrisse minimamente.
I Lords inglesi da tempo non votano più la fiducia al Governo, non votano i provvedimenti finanziari né le tasse, non percepiscono indennità. A questo Parliament Act, introdotto nelle Isole Britanniche fin dal 1911, si è evidentemente ispirato Matteo Renzi, con buona pace di chi sta strepitando in questo momento circa la fine della libertà nella Penisola Italiana. A numi tutelari di questa rivolta civile peraltro si stanno ergendo personaggi francamente improbabili, nel senso di poco credibili. Lasciando perdere chi, dal Presidente Napolitano a D’Alema, ha già dato prova di sé nella gestione della cosa pubblica e nella tutela della Carta Costituzionale, ecco ammantarsi dei panni di novelli Montesquieu, Tocqueville, John Locke ex magistrati come Pietro Grasso, passato alla politica molto tempo prima di fare il salto dal Terzo al Primo Potere dello Stato, già ai tempi della Direzione Nazionale Antimafia. Oppure magistrati di lunghissimo, interminabile corso come Gustavo Zagrebelsky, che partendo dall’apologia di maitres à penser come Piero Calamandrei e Costantino Mortati si è ritrovato a difendere lo status quo da giudice costituzionale prima e da Presidente della Corte Costituzionale poi quanto e come il famigerato giudice Jeffreys prima della Gloriosa Rivoluzione inglese.
Per non parlare di guitti prestati alla politica come Beppe Grillo, il cui ruolo vorrebbe ricalcare sempre più quello di Gabriele D’Annunzio in un’altra crisi della democrazia liberale in Italia, quella del 1922, e invece imita sempre più l’avanspettacolo della compagnia del Bagaglino. La sua proposta politica è sostanzialmente ferma al giorno in cui disse no a Bersani (no ribadito poi a Renzi) allorché gli fu offerta la possibilità di cambiare le cose davvero. Nel frattempo chi ha provato a dire la sua nel Movimento Cinque Stelle è stato opportunamente defenestrato. O con me o vaffa.
Con questi epigoni di Turati, Gobetti, Nenni – di cloro cioè che da ben altro pulpito denunciavano nel 1922 la marea montante autoritaria dei Fasci di Combattimento di Mussolini -  è un fatto che Renzi può dormire sogni tranquilli. E volare in Inghilterra a riscuotere l’apprezzamento del primo Ministro Cameron (dopo quello di Obama), e soprattutto di quel popolo la cui stima per noi da gran tempo è la più difficile da conquistare. Se abbiamo qualche possibilità con i tedeschi e con i francesi, essere apprezzati dagli inglesi è stato finora praticamente impossibile. Ecco allora che la pacca sulla spalla di David Cameron e del leggendario Tony Blair valgono per il primo ministro italiano Matteo Renzi ben più di qualunque prevedibile amarezza egli dovrà affrontare nell’iter parlamentare di questa riforma che dovrebbe portare all’Italicus.
Quello che i philosophes di cui sopra, così preoccupati di difendere le proprie “prerogative” (non solo stipendiali) piuttosto che la Democrazia in Italia, non mostrano di tenere in conto nell’accusarlo di autoritarismo è che la stragrande maggioranza degli abitanti di questo paese ormai è con lui, per il semplice fatto che la riforma dello Stato, di questo Stato, non è più rinviabile. Se la riforma verrà impallinata in una delle due camere, la parola passerà al popolo. Che spesso decide in base alla “pancia”. E la pancia del popolo italiano è sempre meno nutrita. Gli assalti ai palazzi d’Inverno hanno sempre all’origine un voto sbagliato della Duma. Che quando capisce il suo errore è in genere troppo tardi.

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