domenica 31 marzo 2013

Giorgio Napolitano, la carriera di un presidente.


Nel 1978 Camilla Cederna sancì la frattura tra il paese ed il Presidente della Repubblica in carica con il suo magistrale libro Giovanni Leone: la carriera di un presidente. Il libro, per chi ebbe la fortuna di leggerlo, poiché fu dichiarato fuorilegge dal tribunale su istanza della parte lesa, il presidente Giovanni Leone appunto, raccontava fatti e misfatti della più alta carica dello Stato.
Era l’anno in cui la Repubblica visse la sua prima crisi profonda, delitto Moro, scandali. Se non fosse stato per il successore di Leone, Sandro Pertini, le istituzioni repubblicane avrebbero imboccato una china probabilmente infausta e irreversibile. La Repubblica si riprese, almeno fino a Mani Pulite. La Cederna alla fine ebbe ragione delle azioni legali intentate da Leone, anche perché l’avvocato napoletano alla fine fu travolto dalla marea montante degli scandali a lui ascritti e dovette lasciare il Quirinale, unico caso di dimissioni anticipate della storia d’Italia (a parte quelle di Cossiga nel 1992 motivate dalla necessità di evitare una impasse costituzionale, data la coincidenza tra elezione presidenziale e scelta del nuovo governo).
Non c’è una Camilla Cederna a cantare le gesta di Giorgio Napolitano adesso. La giornalista milanese è scomparsa nel 1997. Dei suoi successori, sparita la generazione dei Montanelli, dei Bocca, dei Biagi e delle Fallaci, son davvero pochi quelli che hanno voglia di rischiare onori e glorie per dire le cose come stanno. Sono pochi, come Travaglio e la Gabanelli, e hanno troppi fronti da sorvegliare. Cosicché, l’attuale inquilino del Quirinale ha vita facile, nella sua prassi costituzionale creativa.
Da due anni a questa parte, Giorgio Napolitano ha superato qualsiasi dei suoi predecessori nelle interpretazioni più disinvolte della Costituzione. A confronto, gli esperimenti abnormi dei tempi della Democrazia Cristiana impallidiscono, tentativi animati da buone intenzioni di assicurare un governo al paese nonostante che a quell’epoca ed in quel contesto circa un terzo degli elettori italiani fossero di fatto esclusi dall’elettorato attivo dalla conventio ad excludendum che voleva il Partito Comunista Italiano fuori dai giochi.
Giorgio Napolitano era un esponente di quel partito. Talmente solidale al sistema da essere stato nel 1956 uno dei più convinti assertori della buona ragione dell’intervento dei carri armati sovietici in Ungheria. La logica dei blocchi gli apparteneva a tal punto da farne un acceso sostenitore. Il Patto di Varsavia era fuori discussione. Per estensione, lo era anche la Nato, sotto il cui ombrello atomico fu uno dei primi a riparare, quando Berlinguer nel 1973 dichiarò la cosa ammissibile anche per i comunisti.
Da quel momento, Napolitano e la corrente dei Miglioristi che da lui ebbe origine furono oggetto di un sentimento ambivalente da parte dei “compagni” di partito. Apostrofati dei peggiori epiteti (qui ovviamente irriferibili) in quanto propugnatori del compromesso con la DC e la destra, in realtà erano tenuti in gran conto perché rappresentavano il canale privilegiato attraverso cui poteva passare qualsiasi trattativa più o meno sottobanco con la odiata ma irrinunciabile controparte capitalista.
Forte del suo nuovo aplomb e della sua nuova immagine di comunista british, Giorgio Napolitano accreditò di sé con gli anni uno status ed un cursus honorum di personalità politica essenziale e di spicco nel crepuscolo della Prima Repubblica e nel fulgore della Seconda, un comunista presentabile, un teorico delle istituzioni, candidabile ed eleggibile addirittura alla più alta carica dello Stato quando Carlo Azeglio Ciampi concluse il suo mandato. Per i primi cinque anni, Napolitano ripetè la parabola di Francesco Cossiga: incolore, inodore, insapore. Salvo svegliarsi negli ultimi due, e con la disinvoltura ideologica e comportamentale che l’ha sempre contraddistinto scoprirsi e sentirsi il salvatore della patria.
Peccato non avere avuto nessuno dei grandi giornalisti del passato a raccontare le sue gesta quando introdusse nella Costituzione della Repubblica Italiana l’articolo relativo a “L’Europa lo vuole”. L’escamotage di chiamare Monti in Parlamento nominandolo senatore a vita (per meriti di cui non sapremo mai) al fine di investirlo subito dopo dell’incarico di presidente del consiglio per il quale neanche uno degli elettori italiani l’aveva mai votato avrebbe fatto invidia a generazioni di politici e di costituzionalisti dai tempi dello Statuto Albertino ad oggi. Il compianto Aldo Moro avrebbe applaudito a una manovra che superava in creatività e bizantinismo qualunque cosa lo statista di Maglie avesse mai Escogitato E nessuno che avesse mai per un solo istante richiamato all’attenzione l’art. 88 della Costituzione, secondo cui il Presidente, se per un qualunque motivo (tra quelli individuati dalla prassi costituzionale, che poi si riassumono in uno: la mancanza di una maggioranza in Parlamento) non può individuare in una delle due Camere un soggetto politico a cui conferire l’incarico di formare un governo, ha una sola via da percorrere: lo scioglimento delle Camere. A meno che non si trovi nel semestre bianco, gli ultimi sei mesi del suo mandato in cui non può farlo. In tal caso, come fece Francesco Cossiga, se proprio si vuol passare per salvatore della patria si può fare una cosa sola: dimettersi, e lasciare il campo a chi può agire per il meglio.
L’ultima perla della carriera di Giorgio Napolitano è stata aggiunta oggi. Fedele ad un kamikaze giapponese dell’ultima guerra, il presidente ha detto: non mi arrendo. O per meglio dire: non mi dimetto. Vado avanti, e decido io, fino all’ultimo. In un parlamento spaccato in tre forze equivalenti e non dialoganti (almeno alla luce del sole), questo vuol dire una cosa sola. O sciolgo le camere (ma non voglio farlo perché non lo vuole né il mio ex partito, il PCI-PD, né l’altro con cui da vent’anni esso dialoga di preferenza, Forza Italia-PDL), oppure mi invento qualcosa. E pazienza se di questo qualcosa nella Costituzione non ce n’è traccia.
La decisione di nominare due gruppi di lavoro costituiti da dieci esperti (sic!) che affiancheranno il presidente stesso nella affannosa ricerca del Graal, cioè il governo che verrà, appartiene alla prassi costituzionale creativa. Avevamo avuto di tutto, governi tecnici, governi balneari, governi di unità nazionale, ma il comitato dei dieci saggi no, mai. Lasciamo perdere l’identità di questi saggi, dal Violante che rivendicava in parlamento la primogenitura dell’avvento di Berlusconi (di colui che adesso vorrebbe dichiarare inelegggibile con 20 anni di ritardo e una buona dose di trasformismo) al Quagliarello che dette di assassino al povero padre di Eluana Englaro. Gaetano Quagliarello è uno dei probiviri che dovrebbero portarci fuori dalla palude in cui ci siamo cacciati, votando per la fine di una Seconda Repubblica che ha riempito le istituzioni di gente come quella (maschi e femmine, non è questione di sesso) che Battiato ha definito con il celebre epiteto già passato alla storia. No comment.
Giorgio Napolitano tra pochi giorni, a Dio piacendo, conclude il suo mandato presidenziale. Ma soprattutto conclude una carriera politica in cui, quanto e più di una certa parte della sua generazione e della sua estrazione culturale, ha fatto di tutto perché la Costituzione della Repubblica Italiana fosse tutto fuorché ciò che la gente per cui era stata disegnata dai Padri Costituenti avrebbe voluto che fosse.

To be continued… non è finita qui.

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