mercoledì 4 febbraio 2015

Dieci anni fa nasceva Facebook e la realtà virtuale

4 febbraio 2014

Era il 4 febbraio 2004 quando uno studente del secondo anno di Harvard lanciò un nuovo sito web sul quale gli studenti della sua università potevano interagire accreditandosi con una propria foto ed un profilo contenente i propri dati essenziali. Ci si conosceva, si stringevano amicizie e ci si parlava l’un l’altro, o per meglio dire si  “postava” e si commentava come in un club reale, solo che questo era virtuale e vi si accedeva tramite il proprio personal computer, senza muoversi dalla propria stanza.
Quello studente si chiamava Mark Zuckerberg. Originario di White Plains nello stato di New York, di famiglia ebraica ma non osservante, il brillante studente non era nuovo a tentativi del genere. Al primo anno di college, aveva già realizzato un annuario elettronico degli iscritti, che però aveva avuto vita breve, soltanto poche ore con 450 contatti e 22.000 foto visualizzate prima che venisse chiuso dalle autorità. Zuckerberg infatti per dargli contenuto aveva dovuto attingere ai file riservati dell’università. La bravata non ebbe conseguenze legali, anzi – come a volte succede – era destinata ad essere rubricata come il primo barlume di un colpo di genio.  Il ragazzo ci riprovò alla fine del 2003, basandosi questa volta sulla libera adesione dei visitatori. Della precedente esperienza si portò dietro il nome, che sarebbe diventato leggendario: l’idea iniziale era stata quella di un “Photo Address Book”, un annuario fotografico. Da lì a Facebook il passo era breve.
Zuckerberg lanciò Facebook dalla propria stanza al college nella notte del 4 febbraio 2004, insieme ai suoi coinquilini Dustin Moskovitz e Chris Hughes, e con la collaborazione del grafico Eduardo Saverin e dell’esperto di informatica Andrew McCollum. Entro la fine del mese quel primo tentativo di social network (un neologismo coniato apposta per l’occasione e ormai diventato uno dei termini più usati – ed abusati – di qualsiasi lingua del pianeta) ebbe un tale successo da spingere i suoi ideatori a brevettarlo e ad estenderlo ad altre università come Stanford, Columbia, Cornell, Yale, Pennsylvania e via via tutte le altre del paese.
Nell’estate di quel 2004 il passo successivo, quello dell’uscita in mare aperto, verso il resto del Mondo. Il gruppo di Zuckerberg si trasferì in California, a Palo Alto dove tutt’ora ha la sua sede legale la Facebook Inc., di cui Mark divenne amministratore delegato. A studiare ad Harvard di quei ragazzi non tornò nessuno. Ed entro l’anno dovettero rifiutare le prime sostanziose offerte di diverse compagnie operanti nel settore dei media intenzionate a far propria a qualunque costo quella creatura che si stava rivelando a pochi mesi dalla nascita come un successo travolgente. “Non fu per la somma che ci offrirono”, avrebbe raccontato Zuckerberg pochi anni dopo. “Per me e i miei colleghi, la cosa più importante era creare un flusso di informazioni per la gente. L'idea che le corporazioni mediatiche siano possedute da conglomerati è assolutamente priva di ogni attrattiva per me”.
Questo era l’inizio di una storia che da lì in poi tutti conoscono. Nell’estate del 2010 Facebook festeggiò i 500 milioni di account. Una cifra strabiliante. A quel punto Mark Zuckerberg era già diventato l’uomo dell’anno per la rivista Time, uno dei miliardari più giovani della storia, il più influente personaggio nel campo dell’informazione nell’Era dell’Informazione secondo Vanity Fair. Il suo nome aveva oscurato quello di altri ragazzi prodigio ormai invecchiati, come Bill Gates e Steve Jobs. Quest’ultimo gli aveva erogato, prima di morire, preziosi consigli per la costituzione del team, la squadra che avrebbe dovuto gestire negli anni a venire quell’oggetto semplice eppure sempre più diabolicamente complicato che sarebbe stato destinato a diventare Facebook.
Il social network nato per far “incontrare la gente” in dieci anni è diventato tante cose. Da formidabile veicolo pubblicitario (che consente ai suoi amministratori di dichiarare orgogliosamente e a chiare lettere: “E’ gratis, e lo sarà sempre”), a piazza ideale per qualsiasi attività sociale e soprattutto politica (non c’è ormai un uomo politico, leader o amministratore di qualcosa degno di questo nome che possa fare a meno di un profilo Facebook), a motore della stessa evoluzione del costume, per non parlare di quella del diritto. Ci si fidanza e ci si lascia su Facebook, mentre le corti di giustizia a qualsiasi livello cominciano a monitorare e se del caso sanzionare i comportamenti di qualsiasi “fan” che crede di limitarsi a scrivere “post” senza conseguenze al sicuro nella propria stanzetta. Una frase sbagliata, un insulto scritto a commento su profili altrui portano ad avvisi di garanzia tanto quanto aggressioni verbali vis à vis. E recentemente perfino il semplice cliccare “mi piace” ha messo nei guai l’incauto o semplicemente sfortunato utente che aveva trovato divertente uno scambio di contumelie tra terzi.
Come ogni tormentone che abbia assunto simile rilevanza, dopo 10 anni Facebook sta conoscendo ormai anche la sua prima crisi di rigetto. Qualcuno comincia a domandarsi se non era meglio la vita reale piuttosto che quella virtuale. Se non ci si divertiva di più quando si usciva ad incontrare davvero i propri amici, anziché contattarli al computer. Qualcuno invece vede con crescente allarme le svolte in senso contrario alla privacy adottate dal network, sotto la spinta di governi e polizie che vedono con interesse sempre crescente le potenzialità offerte da questo enorme database che sta sotto di esso.

Come in Matrix, questo di Facebook è un mondo parallelo dove può succedere di tutto, quanto e più che nel mondo reale, nel bene e nel male. Un mondo che affascina e fa paura con la stessa intensità. E che forse prefigura una natura profonda ed un destino della razza umana molto più inquietanti di quanto fosse nelle intenzioni stesse di quei tre ragazzi nella stanzetta di Harvard in quella notte di dieci anni fa di andare a scoprire.

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