domenica 15 febbraio 2015

Magazzino 18, la nostra storia

Avevamo improvvisamente imparato a conoscere questo ragazzo romano dai molti capelli e dall’ambizione di diventare un cantautore che rinverdisse la fama di un Giorgio Gaber e di un Rino Gaetano nel 2007, quando, pochi giorni dopo aver compiuto 30 anni, vinse a sorpresa la cinquantasettesima edizione del Festival di Sanremo con la canzone Ti regalerò una rosa.
Simone Cristicchi raccontava la sua esperienza di volontario in un centro di igiene mentale in quello che sembrava il palcoscenico più improbabile, quello del Teatro Ariston, il regno dell’effimero per antonomasia. E invece il suo successo fu travolgente e ne fece una figura di primo piano nel panorama artistico nazionale. Il ragazzo di Trastevere era destinato – se possibile – a ben altro che a seguire le orme dei padri nobili della canzone d’autore.
Tra le sue passioni non c’erano solo la musica ed il teatro. C’era soprattutto la storia, soprattutto quella vista dalla parte dei più deboli. Dopo i malati di mente, sopravvissuti all’applicazione non sempre felice della riforma di Franco Basaglia, era toccato ai minatori dell’Amiata, alle vittime del G8 di Genova, e infine a quel carnaio immane che era stata la seconda guerra mondiale, in cui di vittime (e carnefici) se ne trovano a volontà.
Proprio durante uno dei suoi giri di documentazione in preparazione del libro “Li romani in Russia”, dove si proponeva di raccontare l’epopea dei suoi concittadini finiti nell’ARMIR di Mussolini, capitò a Trieste, città di confine e di tragedie antiche e recenti mai guarite. E anche molto poco raccontate, nonostante la retorica patriottarda.
Nel capoluogo giuliano, il destino mise davanti a Simone la materia del suo lavoro successivo, e probabilmente il viatico verso una notorietà ed un merito artistico ancora più grandi di quelli raggiunti allora dalla sua pur giovane carriera. A Trieste, qualcuno gli parlò del Magazzino 18. E niente fu più lo stesso.
Al Porto Vecchio di Trieste, l’immensa struttura creata dall’imperatrice Maria Teresa d’Asburgo e dai suoi successori per fare della città giuliana il gioiello della corona imperiale austro-ungarica, erano – e sono tutt’ora – presenti una serie di magazzini, fondachi ormai in gran parte purtroppo abbandonati, che una volta avevano contenuto le ricchezze in transito ed in deposito del commercio asburgico e che adesso ne contengono solo le vestigia, in gran parte dimenticate e quasi sempre non visitabili anche da parte di quel pubblico magari desideroso di non assecondare l’oblio istituzionale.
Di quei magazzini, il numero 18 era particolare. Quello che conteneva, e contiene tutt’ora, racconta di una vecchia tragedia, una storia che la storiografia è stata ben contenta di dimenticare, in ossequio alla sua padrona per eccellenza, la politica. Settant’anni fa circa, in quel magazzino del Porto Vecchio, il Servizio denominato “Esodo” accatastò tutte le proprietà superstiti di quegli istriani di Pola, Fiume e Zara che avevano visto la loro terra assegnata alla Jugoslavia dai Grandi riuniti a Parigi per il Trattato che metteva fine alla seconda guerra mondiale, chiudendone gli orrori con l’ultimo, per loro sicuramente il più atroce.
350.000 istriani scelsero di non avere nessuna fiducia nelle autorità jugoslave, le stesse che avevano “infoibato” (gli storici avrebbero continuato a negare o a ignorare, ma le vittime sapevano, eccome) i loro cari a ostilità già terminate, le stesse che – come qualche filocomunista sprovveduto avrebbe imparato sulla propria pelle – avrebbero continuato anche nei decenni successivi a perseguitare chi aveva il marchio d’origine dell’italianità.
Montagne di sedie aggrovigliate file di armadi desolatamente vuoti, letti in cui erano stati sognati sogni tragicamente infranti, cataste di legno. E poi lettere, fotografie, pagelle, diari, reti da pesca, pianoforti muti, martelli ammucchiati su scaffalature ormai rose dall'umidità. Settant’anni fa, o quasi, queste masserizie furono consegnate al Servizio Esodo dai legittimi proprietari, gli italiani d'Istria, un attimo prima di diventare quello che sarebbero rimasti – almeno dentro il proprio cuore – per il resto della vita: esuli.
Le loro proprietà superstiti, o almeno quel poco che avevano potuto portarsi dietro in fuga dall’Esercito del Popolo di Tito, furono ammassate lì, con la speranza magari un giorno di potere andare a riprendersele, per arredare ed allietare nuove case e nuove vite. Lì sono rimaste settant’anni, perché nessuno è tornato più. Chi è emigrato è rimasto nei nuovi mondi, U.S.A., Canada, Australia. Chi è rimasto non ha più avuto il cuore di riaprire vecchie laceranti ferite che in qualche modo aveva rimarginato alla bell’e meglio. Le autorità portuali, statali e comunali, sprangarono tutto e la memoria di qualcosa che non avrebbe dovuto essere mai dimenticato rimase lì, al buio, ad aspettare che il tempo trascorresse, il sangue si asciugasse, la politica rinunciasse a fare altre vittime, almeno in quella parte di mondo lì, a danno di quella gente.
Quando qualcuno aprì a Simone Cristicchi le porte del Magazzino 18, Roberto Menia ed Alleanza Nazionale erano riusciti da poco a far approvare al parlamento Italiano il tardivo risarcimento almeno morale del Giorno del Ricordo. Per scoprire che, incredibilmente, della tragedia degli istriani (e di quella parte di mondo dove la guerra mondiale aveva visto scritte alcune delle sue pagine più atroci) quasi nessuno sapeva nulla.
Scuola pubblica e cultura ufficiale si erano piagate alla realpolitik. Il Partito Comunista Italiano era stato forte, fortissimo nel dopoguerra, al di là dei seggi in parlamento e dell’ombrello NATO. Dei martiri delle Foibe non si poteva parlare, a pena di essere tacciati di apologia di fascismo. Secondo la “cultura” ufficiale, l’equazione italiani = fascismo ce l’eravamo meritata proprio lì, in Istria, Dalmazia e Croazia. Quindi, soffrire in silenzio e tirare avanti, ad espiare le “colpe dei padri” per l’eternità.
Le ragioni delle vittime erano state lasciate in appannaggio spirituale e politico al solo Movimento Sociale Italiano. Essere con gli istriani significava stare non solo dalla parte dei vinti (cosa che all’italiano medio non piace mai, a prescindere), ma soprattutto dalla parte di loro, i nostalgici del Fascismo. I campi profughi si erano riempiti di nostri connazionali un po’ ovunque (alcuni destinati a diventare famosi, Sergio Endrigo, Laura Antonelli, Nino Benvenuti, Ottavio Missoni), a scontare una lunga quarantena prima di riuscire a farsi accettare dal resto della popolazione e a disperdervisi nel suo insieme.
Con il suo spettacolo Magazzino 18, Simone Cristicchi sta girando l’Italia (e non solo, la sua rappresentazione ha avuto audience e successo perfino nel “campo avverso”, in Croazia) da oltre un anno. Da oltre un anno tocca il cuore e scatena polemiche, risvegliando memorie storiche e personali a cui non si ritorna volentieri, ridestando – o destando per la prima volta - coscienze, attirandosi addosso strali e critiche feroci da tutte le parti. Dalla destra estrema che vorrebbe strumentalizzare il suo spettacolo, a quegli ultimi figli inconsapevoli di un comunismo ampiamente sconfitto dalla storia del mondo ma che ha ancora pretese egemoniche sulla cultura italiana. Come quella cooperativa di giovanotti denominata WuMing che imperversa sul web e nelle librerie con le sue operazioni culturali – o presunte tali – di controinformazione e che proprio con l’aggressione verbale a Cristicchi ha dimostrato, se ce n’era bisogno, che ci sono almeno un paio di generazioni che dovrebbero ritornare a scuola. Magari una scuola che funziona, non certo quella italiana attuale.
Spalancare le porte di un magazzino come il 18 significa del resto ereditare tutto il peso della storia d’Italia. Al suo peggio, vorremmo dire. La storia delle foibe, delle esecuzioni sommarie che non risparmiarono donne, bambini e sacerdoti, della vita nei campi profughi e del dolore profondissimo per lo sradicamento e la cancellazione della propria identità, finalmente viene portata in palcoscenico dal musical di Simone Cristicchi, che si “limita” – si fa per dire – a mettere in musica i reperti di quel fondaco. A lasciare che parli la voce dei superstiti, degli esuli che non torneranno più. Della bambina morta di freddo nel campo profughi di Padriciano e di tutti coloro che continuarono a morire, brutalmente e – si spera, almeno – rapidamente oppure a poco a poco, ben dopo che l’ultimo dei cannoni della guerra mondiale aveva sparato il suo ultimo colpo.
Sarà un caso, ma il Comune di Trieste da due anni a questa parte ha deciso di aprire le porte del magazzino 18 a visite guidate a quel mare di legno e di memorie su cui Cristicchi ha riacceso la luce. Non è mai troppo tardi, diceva una volta un maestro che ebbe l’ambizione – riuscendovi – di risollevare da millenaria ignoranza una popolazione a cui all’epoca la televisione insegnava, e non toglieva.
Come gli disse lo stesso custode del magazzino 18: “secondo me questa storia puoi raccontarla soltanto tu, hai l'età giusta, sei libero dalle zavorre ideologiche che hanno condizionato le generazioni che ti hanno preceduto". Libero, e dotato di talento, come aggiungiamo noi e come ognuno può constatare seguendo il suo spettacolo.
Come il Dario Fo del Mistero Buffo negli anni 70, come il Marco Paolini del Vajont negli anni 90, Simone Cristicchi è meritatamente il fenomeno culturale di questo avvio di ventunesimo secolo. E’ riuscito perfino a rendere il Festival di Sanremo qualcosa che vale la pena di perdere tempo a seguire, almeno per una volta. Chissà che non riesca a riconciliare gli italiani con la loro storia e con la loro coscienza.


Nessun commento:

Posta un commento