martedì 10 febbraio 2015

Maria Pasquinelli, tre spari per la libertà dell’Istria

La mattina del 10 febbraio 1947 il brigadiere generale Robert de Winton, comandante della guarnigione britannica di Pola, lasciò il suo alloggio diretto alla sede del comando militare alleato dove avrebbe passato in rassegna la guarnigione stessa in occasione del passaggio dei poteri all’esercito del Maresciallo Tito. In quelle stesse ore, a Parigi era in corso la firma del trattato di pace che assegnava definitivamente la città di Pola e tutta l’Istria alla Jugoslavia.
Maria Pasquinelli
De Winton, arrivato in macchina, stava avanzando verso il reparto schierato quando, dalla piccola folla antistante, si staccò una donna che, dirigendosi verso il generale, estrasse la pistola che nascondeva in una delle maniche del cappotto e gli sparò tre colpi di pistola nella schiena. Poi lasciò cadere la pistola a terra e si lasciò arrestare da uno dei soldati britannici.
In tasca a quella donna venne trovato un biglietto di rivendicazione, nel quale si leggeva:
«Seguendo l’esempio dei 600.000 caduti nella guerra di redenzione 1915-18, sensibile come loro all’appello di Oberdan, cui si aggiungono le invocazioni strazianti di migliaia di Giuliani infoibati dagli Jugoslavi dal settembre 1943 a tutt’oggi solo perché rei di italianità, a Pola irrorata dal sangue di Sauro, capitale dell’istria martire, riconfermo l’indissolubilità del vincolo che lega la Madre Patria alle italianissime terre di Zara, di Fiume, della Venezia Giulia, eroici nostri baluardi contro il panslavismo minacciante tutta la civiltà occidentale.
«Mi ribello, col fermo proposito di colpire a morte chi ha la sventura di rappresentarli, ai Quattro Grandi i quali, alla Conferenza di Parigi, in oltraggio ai sensi di giustizia, di umanità e di saggezza politica, hanno deciso di strappare ancora una volta dal grembo materno le terre più sacre d'Italia, condannandole o agli esperimenti di una novella Danzica o con la più fredda consapevolezza, che è correità, al giogo jugoslavo, sinonimo per la nostra gente indomabilmente italiana, di morte in foiba, di deportazioni, di esilio. 
Maria Pasquinelli
Pola, 10 febbraio 1947»
Arresto di civili a Trieste da parte di soldati jugoslavi
Maria Pasquinelli era nata a Firenze il 16 marzo 1913, ma il suo destino era legato alla Venezia Giulia fin da quando aveva deciso di dedicare la propria vita al patriottismo. Che negli anni tra le due guerre si saldò indissolubilmente al Fascismo, secondo un’equazione destinata a rimanere in gran parte valida anche successivamente, in epoca repubblicana.
Mentre le sinistre di ogni ordine e grado facevano a gara a mostrarsi sorde a qualsiasi istanza di tipo nazionale o nazionalista fin dalla prima Guerra Mondiale, la destra eversiva e poi di regime fu invece lesta ad accaparrarsi dapprima il mito della “vittoria mutilata” dal Trattato di Versailles, con Mussolini all’atto della fondazione dei Fasci di Combattimento avvenuta negli stessi giorni in cui si firmava quel primo trattato dell’italico scontento. Durante il Ventennio, il regime fascista fu poi abile a far combaciare ogni sua elaborazione ideologica con l’idea di patria e le sue implicazioni, fino alle estreme conseguenze della seconda guerra Mondiale. E più tardi, dopo l’avvento della repubblica, il neofascismo ebbe buon gioco a intercettare lo scontento provocato da un trattato ben più mutilante di quello del 1919.
La fuga da Pola degli abitanti italiani nel 1947
Il Trattato di Parigi del 1947 sanciva infatti tra le altre cose la perdita dolorosissima per l’Italia delle sue province istriane e dalmate. Sanciva ancor più dolorosamente per le popolazioni che vi avevano abitato la perdita di tutto, dalla casa, alla famiglia in molti casi alla stessa vita. O morti nelle Foibe o sopravvissuti in balia di un “orrore senza fine” come loro stessi lo definivano, gli Istriani erano stati cancellati come entità geografica. Riparati a Trieste, l’ultima città italiana salvata dalla marea jugoslava, il confine orientale su cui passava la Cortina di ferro, avevano per lo più cercato di andare avanti senza poter indulgere alla memoria struggente e straziante insieme di un passato che non sarebbe ritornato più.
L’unico gesto di ribellione alla sentenza della storia, alla realpolitik dei Quattro Grandi ed all’acquiescenza del nuovo governo repubblicano italiano (allora sostenuto, ed in seguito condizionato, dal Partito Comunista di colui che veniva definito il proconsole di Stalin, Palmiro Togliatti) fu compiuto dunque da una fiorentina. La Pasquinelli era una Giovane Italiana che affascinata dal patriottismo estremo propagandato dal regime di Mussolini aveva scelto di dedicarsi dapprima a prestare la sua opera al Partito Nazionale Fascista, poi – allo scoppio della guerra – al servizio di crocerossina al seguito delle truppe italiane impegnate in vari fronti, poi ancora – dopo l’8 settembre all’opera di partigianeria contro le varie truppe occupanti che si contesero il territorio nazionale fino alla Liberazione.
Fu una partigianeria sui generis. Maria cercò soprattutto di sensibilizzare una opinione pubblica distratta dalle bombe, dalle atrocità commesse sulla linea del fronte e nelle retrovie, in generale da questioni che per drammaticità andavano addirittura ben oltre, in merito alla sorte degli italiani in quella terra di nessuno e di tutti che era diventata la Venezia Giulia. La sua documentazione circa il tragico destino dei nostri connazionali nelle terre dove i partigiani di Tito stavano cominciando ad avere il sopravvento fu letta da tutti, dagli Alleati al Governo della Repubblica di Salò al Governo del Sud di Badoglio, ma utilizzata da nessuno. Vi si leggeva già dal 1943 di cosa succedeva nelle Foibe, ma fino al 1945 nessuno ritenne di darvi peso, visto che di ammazzamenti, e addirittura più atroci, ce n’erano un po’ dovunque.
Il processo di Maria Pasquinelli
Dopo, la realpolitik che fece di Tito il primo transfuga dal Patto di Varsavia e un benemerito dell’Occidente ingessato dalla Guerra Fredda stese una coltre di silenzio interessato su quei poveri martiri, legati con il fil di ferro e buttati magari ancora vivi nelle fessurazioni delle doline carsiche. Su tutto ciò vegliava – e avrebbe continuato a farlo per quasi 60 anni – il Partito Comunista Italiano, desideroso di accreditare presso la Storia la leggenda della Liberazione ad opera di cavalieri sempre senza macchia e senza paura.
Nel dopoguerra, al Movimento Sociale Italiano sarebbe stato lasciato di fatto il compito di combattere la battaglia per ridare almeno dignità, se non sepoltura cristiana, a quei poveri morti italiani nelle Foibe. Finché al deputato triestino di Alleanza Nazionale Roberto Menia riuscì nel 2004 a far approvare la legge che istituiva il Giorno del Ricordo. Da quel momento nessuno avrebbe potuto più dire “io non sapevo”. Molti avrebbero tuttavia continuato a farlo ugualmente.
Quella mattina di febbraio del 1947 la pasionaria nera Maria Pasquinelli si sentiva sola contro il mondo. Un mondo a cui la sua patria aveva dovuto sottomettersi per forza di cose. Un mondo in cui era preferibile una “fine con orrore” ad un “orrore senza fine”. Per il gesto da lei compiuto c’era una sola pena possibile, ai sensi del Codice Penale Militare introdotto dal regime di occupazione: la pena di morte. Fu processata da una corte alleata a Trieste e condannata alla pena capitale. La stessa corte invitò tuttavia la donna a fare ricorso, forse in ragione dello scalpore che la sua esecuzione avrebbe suscitato nell’opinione pubblica.
Maria Pasquinelli rifiutò, consegnando alla storia parole che non avrebbero sfigurato nell’epopea del Risorgimento: « Ringrazio la Corte per le cortesie usatemi, ma fin d'ora dichiaro che mai firmerò la domanda di grazia agli oppressori della mia terra. ». Il giorno dopo Trieste era invasa da volantini su cui c’era scritto: « Dal pantano è nato un fiore, Maria Pasquinelli. Viva l'Italia ».
La condanna a morte fu comunque sospesa e commutata in seguito in ergastolo: Maria Pasquinelli tornò libera nel 1965 in seguito ad un’amnistia. Forse ritenendo di aver vissuto abbastanza al centro della Storia, dopo la scarcerazione si ritirò a vita privata strettissima, rompendo soltanto nel 2011, due anni prima di passare a miglior vita, il silenzio sui suoi tempi e sul suo gesto. Il libro intervista scritto dalla giornalista Rosanna Turcinovich Giuricin, «La giustizia secondo Maria» (Del Bianco Editore, collana Civiltà del Risorgimento), racconta di quei giorni ormai lontani e di quella ribellione ad un destino che ormai tengono a memoria soltanto i sopravvissuti dell’olocausto giuliano ed i loro discendenti.
Maria Pasquinelli è morta a Bergamo il 3 luglio 2013, tre mesi dopo il suo centesimo compleanno. Aveva scelto di vivere dalla sorella a cui era stata legatissima. E di non fare ritorno né a Firenze, che le aveva dato i natali, né a Trieste, che le aveva dato l’immortalità. Almeno tra coloro per i quali la giornata di oggi è veramente quella del Ricordo.

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