domenica 22 febbraio 2015

Numero Zero, i misteri d'Italia secondo Umberto Eco

Settima prova d’autore per Umberto Eco. Avevamo lasciato il professore di Alessandria all’ultima pagina del diario, bruscamente interrotto, di Simone Simonini, l’avventuriero che aveva attraversato tutto l’Ottocento ed il Risorgimento italiano per andare a concludere la propria esistenza in un improbabile attentato alla metropolitana di Parigi (allora in costruzione, siamo nel 1898).
Lo ritroviamo (siamo in Italia, nel 1992, nei giorni in cui esplode l’inchiesta Mani Pulite) nelle prime, allucinate pagine del diario di tale Colonna, giornalista fallito, o perlomeno che non ha mai sfondato. Il nuovo personaggio di Umberto Eco è anche lui un paradigma vivente, e del resto non a caso il suo creatore è il massimo esponente italiano (e forse internazionale) di semiotica, la scienza che studia i segni ed il loro significato, la base di quell’altra scienza diventata fondamentale ai nostri giorni, la comunicazione.
Se Simonini, falsario e spia, aveva rappresentato il lato oscuro di tutta la nostra epopea risorgimentale, entrando direttamente o indirettamente in tutte le trame ordite dai servizi che fiancheggiarono – e spesso precedettero – gli eserciti in campo pro o contro l’Unità d’Italia, questo ancor meno accattivante dottor Colonna, di cui non sappiamo e non sapremo nemmeno il nome di battesimo, rappresenta il lato oscuro della nostra vita politica e civile contemporanea, la “notte della Repubblica” incarnata dalla degenerazione del suo Quarto Potere, quello che avrebbe dovuto esserne il guardiano più fedele.
Simonini attraversa un secolo in cui tutto si vena – nel bene e nel male – di Romanticismo. Perfino le leggende nere che vengono ad arte coltivate dal mondo delle spie per discreditare avversari pericolosi, fino a quella destinata a diventare la madre di tutte, la favola tragica del Protocollo dei Savi di Sion, la presunta cospirazione ebraica per il dominio del mondo di cui si sarebbe nutrito in buona parte l’antisemitismo nel secolo successivo. Con le conseguenze che sappiamo.
Colonna non lo si può definire un suo epigono, ma semmai qualcosa di meno e di diverso, un ingrediente grezzo. I suoi tempi sono assai meno romantici, ed anche meno eroici, anche se di bombe ne scoppiano e di guerre ne vengono combattute con pari spargimento di sangue, anzi. E’ un personaggio di quel sottobosco del mondo dell’informazione che in tempi di tarda Prima Repubblica può portare un individuo ad essere un nuovo Mino Pecorelli (il re del dossieraggio ricattatorio scomparso misteriosamente nel 1979) così come il probabile capo-redazione di un misterioso settimanale destinato a rivoluzionare il panorama dell’editoria giornalistica italiana.
A cinquant’anni, quando sembra ormai che l’avvenire sia per lui tutto dietro le spalle, il Colonna viene contattato dal misterioso faccendiere di un ancor più misterioso imprenditore (il Commendatore) desideroso di una entrata nel salotto buono dell’informazione in vista di una discesa in campo successiva. Alzi la mano chi non ha riconosciuto il riferimento storico, peraltro tutt’ora di attualità.
Antonio Di Pietro all'epoca del Pool Mani Pulite
Al Colonna, giornalista oscuro ma a suo modo provetto, viene affidato il compito di istruire una redazione fatta di personaggi ancora più borderline di lui su come si costruisce una notizia. Si badi bene, in quei giorni – primavera 1992 – di notizie ce ne sarebbero a sfare, basterebbe uscire per strada e recarsi presso uno dei tribunali della Repubblica, a cominciare da quello di Milano dove il Dott. Antonio di Pietro ha cominciato la sua breve stagione di magistrato di Mani Pulite.
Al Commendatore, gli viene ben presto fatto capire, non interessano le notizie di per sé, ma solo quelle che possono dare, se opportunamente enfatizzate e/o arricchite, giovamento a lui e fastidio ai suoi avversari. Si lavora ad un “Numero Zero” (di qui il titolo del romanzo) di un periodico, Domani, che dovrà rivoluzionare il mondo del giornalismo italiano. In che misura, il faccendiere del Commendatore lo lascia soltanto intuire, ma efficacemente.
E così, da una riunione all’altra di una redazione di sgangherati reporters che navigano a vista tra il miraggio finalmente di una carriera vera e l’inquietudine di una coscienza che non vorrebbe piegarsi del tutto a sacrificare la libertà di stampa al tornaconto dell’editore, si consuma una parabola del giornalismo italiano che di per sé sola farebbe del racconto di Eco un altro capitolo interessante della sua produzione sia narrativa che saggistica. Pagina dopo pagina, riunione dopo riunione, l’esperto di comunicazione illustra – e ci illustra - i suoi trucchi (o che almeno potevano considerarsi tali nel 1992, quando eravamo tutti più speranzosi o più ingenui) e ci svela come le voci COMUNICAZIONE ed INFORMAZIONE in realtà possano arrivare a contenere tutto ed il contrario di tutto.
E’ la stampa, bellezza! dice Humphrey Bogart al boss della malavita Rodzich che vorrebbe chiudere la bocca al suo giornale, nel film L’Ultima minaccia. Il cinema e la letteratura americani ci hanno tramandato un’immagine epica della stampa locale, da Quarto Potere di Orson Welles a Tutti gli uomini del Presidente di Alan J. Pakula. E’ un’immagine peraltro accreditata dai brillanti risultati ottenuti nella realtà. La testardaggine di Bernstein e Woodward fu fondamentale per arrivare alle dimissioni di Nixon dopo il Watergate.
In Italia, le rare pellicole di ambientazione giornalistica come il Muro di Gomma di Marco Risi sulla tragedia di Ustica dipingono la carta stampata a tinte migliori di quelle visibili nella realtà. Il 1992 fu un anno fatidico, quello in cui finalmente la società civile avrebbe potuto prendere il controllo del proprio destino in questo paese, guidata da una stampa che avesse colto l’occasione di affrancarsi da padronato e politica cavalcando la tigre della stessa libertà dei cittadini. Una breve ed illusoria stagione.
12 dicembre 1969, Milano, banca Nazionale dell'Agricoltura,
Piazza Fontana
La parabola di Domani, il settimanale immaginato da Umberto Eco, è quella di tutto il giornalismo nostrano. Il breve esperimento del fantomatico, si fa per dire, Commendatore e della sua improbabile redazione va ad infrangersi al pari dell’opera del falsario Simonini sulle conseguenze di una leggenda nera. Una delle tante di cui è piena la storia d’Italia, ma anche la più attuale. Il presupposto è clamoroso, e non diciamo quale per non rovinare il piacere della lettura e la suspence. Il senso è che la storia d’Italia del Ventesimo Secolo è attraversata tra trame nere (e questo lo sapevamo) collegate da un unico filo anch’esso nero (e questa è un’ipotesi suggestiva, che gli storici un giorno potranno confermare o smentire e che nel frattempo ci aiuta a mettere in fila tanti fatti oscuri della notte della Repubblica, fin da prima della sua nascita).
Il protagonista inconsapevole di Numero Zero non a caso si chiama di cognome Braggadocio, parola che l’italiano ha mutuato dall’inglese e che significa spaccone, millantatore, imbroglione. E’ la parte di coscienza che tira la giacchetta a Colonna invitandolo ad aprire gli occhi sui dossier, sui documenti veri o fabbricati che circolano nel sottobosco dell’informazione e dei servizi italiani. Un ambiente comune, magmatico e fetido nel quale non si distingue più nulla.
San Benedetto Val di Sambro, 4 agosto 1974, treno Italicus
Come il Simonini istruito dai maestri dello spionaggio ottocentesco, Braggadocio e Colonna oscillano tra verità e fantapolitica in modo che non è più possibile stabilire ciò che è giusto da ciò che è sbagliato. Il giornalista in Italia è un apprendista stregone che impara a dosare gli ingredienti nelle misure “giuste”, vero o falso è tutta questione di momento o di enfasi, per un popolo abituato a ricevere la verità dal Potere, senza mai metterla in discussione, senza ribellarsi.
Finisce male, come l’opera precedente. Come la realtà. Mentre il Belpaese vive la breve, illusoria stagione di Tangentopoli, il ficcanaso che voleva svelare le Trame Nere fa una brutta fine, il suo collega che credeva di poter fare uno scoop giornalistico, di avere quantomeno davanti un avvenire giornalistico, si trova di fronte al dilemma di tutti i perseguitati da parte dei servizi segreti: far perdere le proprie tracce? E dove?
Il finale è amaro, come le conclusioni dell’autore, e di chiunque sa già com’è andata la storia, quella vera. Per far perdere le proprie tracce, anche nei confronti di se stessi, non importa scappare. Basta rimanere qui, nel paese dove dopo un po’ la gente si stanca, aspira alla normalità del “proprio particulare”, come lo definiva Guicciardini, mal digerisce rivoluzioni e capipopolo, politicanti (vecchi e nuovi) e magistrati. Aspira a voltare pagina, di quel giornale che non sopporta troppo carico di cattive notizie. Anestetizzata agli effetti ed al peso della verità.
Basta continuare come se nulla fosse successo. Nessuno si ricorderà più di te, di cosa hai fatto, di cosa cercavi. Il giornale che oggi sembra dinamite, domani al limite viene messo da parte per qualche ricerca di scuola. Domani l’altro ci si incarta il pesce o ci si copre un pavimento per rimbiancare.



Se un milione di persone crede ad una cosa idiota, la cosa non cessa di essere idiota” 
(Anatole France)

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