martedì 31 marzo 2015

VIOLA NELLA TESTA E NEL CUORE: Gli occhi della tigre



Poche volte una pausa di campionato per la Nazionale è stata necessaria alla Fiorentina come questa, per recuperare infortunati ed affaticati. Poche volte è stata così fastidiosa, ad allungare per giocatori e tifosi l’attesa dei prossimi decisivi impegni.
Sabato finalmente il pallone torna a rimbalzare sull’erba del Franchi. Ancora tre giorni in cui ci si gioca tutto. Per prolungare sogni come non se ne facevano più da un passato ormai lontano o vederli spegnersi come altre volte nel passato recente.
Sabato arriva la Sampdoria, ed è un primo scontro da dentro o fuori. Sono tanti i motivi per cui questa è una partita fondamentale, quasi una sfida all’OK Corral. La Samp è avanti alla Fiorentina, la differenza matematica la fanno quei tre punti lasciati a Marassi il giorno che Gonzalo Rodriguez sbagliò l’unico rigore della sua carriera in viola, e tutta la squadra sbagliò partita affrontando con le gambe molli e la testa rilassata, troppo rilassata la squadra messa in campo dall’ultima delle tigri di Arkan.
Già, perché l’altro motivo che ne fa una sfida sentita è lui, Sinisa Mihajlovic, l’uomo che fu preso per non far rimpiangere Cesare Prandelli e che invece si trovò a gestire uno dei periodi più deprimenti dell’intera storia viola. Incolore dapprima, sportivamente tragico alla fine, con quella panchina lasciata ad un Delio Rossi capace di farsi ricordare soltanto per degli schiaffi ad Adem Llajic che il serbo avrebbe dovuto prendere molto prima e nelle sedi opportune.
A Sinisa, che quegli schiaffi avrebbe potuto, saputo e voluto tirarli al suo connazionale sia dalla panchina viola che da quella della Nazionale del loro paese, toccò allenare una banda in smobilitazione, le “vedove di Prandelli”, giocatori che ormai qui a Firenze avevano fatto il loro tempo. A cui si era spenta la luce, come avrebbe rimarcato Gilardino. A cui il viola non si intonava più, come aveva già fatto sapere Montolivo. In cui il lato oscuro dell’anima era tornato a prevalere, come quell’Adrian Mutu che – malgrado i noti screzi del passato – era considerato da Mihajlovic la sua arma migliore, in attesa dell’esplosione dell’altro connazionale Stevan Jovetic. Un’esplosione che come tante altre quell’anno non sarebbe mai arrivata.
La tigre Sinisa a Firenze non riuscì mai a ruggire ed alla fine dovette andarsene sconsolato. E’ da dubitare che con lui in panchina sarebbe mai arrivato un tracollo come lo 0-5 casalingo con la Juventus, ma è un fatto che nel suo anno e mezzo la Fiorentina non entusiasmò mai. I tifosi non hanno un gran ricordo di lui, stretto tra Prandelli e Montella, due che al contrario hanno fatto sognare e divertire.
Quando le strade di Mihajlovic e della Fiorentina si sono incrociate di nuovo, l’anno scorso al primo incontro con la Samp, gli chiesero cosa invidiasse appunto a Montella. La sua risposta, secca, fu: “la squadra, che io a Firenze non ho avuto”. All’andata, il 3-1 di Marassi con l’apoteosi del gol beffa di Eder che mise a sedere tutta la difesa viola deve avergli fatto comprensibilmente piacere. Ancor più gliene farebbe sabato estromettere definitivamente la sua ex squadra dalla corsa alla Champion’s League. P.S. La partita ha un altro ex, quell’Emiliano Viviano che – grandissimo tifoso viola – ha tuttavia fatto benissimo dappertutto meno che qui. Speriamo bene.
Tre giorni dopo arriva la Juventus. Non c’è bisogno di dire altro. La partita avrebbe le sue brave motivazioni anche se in palio ci fosse soltanto il gelato al bar dell’angolo, come da ragazzini. E in palio invece c’è la finale di Coppa Italia, la rivincita su tante sconfitte al cospetto dei bianconeri in vista di un’altra possibile rivincita più avanti contro gli azzurri partenopei o i biancocelesti capitolini.
Quest’anno la Fiorentina ha un match ball ancora più clamoroso di quello dell’anno scorso da giocare. La buona notizia è che non c’è Pirlo a battere eventuali punizioni. La cattiva è che ci sarà Marchisio, malgrado il comico equivoco tra medici azzurri e bianconeri, la Juve è riuscita nell’intento di risparmiare il suo centrocampista per la sfida decisiva del Franchi di martedi, che non ha affatto rinunciato a voler fare sua malgrado parta da una sconfitta casalinga.
I bianconeri hanno nel loro DNA la voglia di vincere sempre e comunque. L’unico modo di batterli è coltivare all’interno del proprio di DNA qualcosa di simile. Servirà che i ragazzi di Montella scendano in campo con gli occhi della tigre. Il vecchio compagno di squadra di Sinisa Mihajlovic ai tempi di una Sampdoria molto più forte dell’attuale (non ce ne voglia viperetta Ferrero) a questo punto dovrebbe aver voglia di legare il suo nome a qualche vittoria, aggiungendo qualche trofeo ad una bacheca che è tristemente ferma all’anno di grazia 2001, a cui seguì poi quello di disgrazia 2002.
Hanno lo sguardo diverso ma ugualmente intenso Sinisa Mihajlovic e Vincenzo Montella. Vediamo chi guarda più lontano. Tra tre giorni. Tutto in tre giorni. Ancora una volta. A proposito, Vincenzo, dai retta, il turnover lasciamolo per quest’estate al mare.

lunedì 30 marzo 2015

Ferrari e Valentino, la leggenda continua

Ferrari is back!” gridano dai box nell’interfono di Sebastian Vettel che ha appena tagliato per primo il traguardo del GP della Malesia. Il tedesco risponde in italiano, urlando a sua volta un “Forza Ferrari!” che la dice lunga sull’entusiasmo che ha messo in questa nuova avventura e sulla difficoltà di contenere (come si può apprezzare dal camera car durante il suo giro d’onore) la gioia per questa sua prima vittoria in rosso arrivata appena alla seconda uscita, dopo il già notevole terzo posto in Australia.
La multinazionale rossa parla inglese ed è ben contenta di riascoltare l’inno nazionale tedesco, dieci anni dopo gli ultimi trionfi del povero Michael Schumacher che adesso sta combattendo una battaglia ben diversa. Con il suo erede ufficiale, il tedesco del sud che ha già vinto quattro titoli mondiali promettendo di tentare di raggiungere i sette del Mito di Kerpen, c’era poco da scherzare già ai tempi della Red Bull. Figuriamoci adesso che a quanto pare il Cavallino gli ha messo in mano una monoposto che sembra capace di rinverdire i fasti di quella portata nella leggenda a suo tempo proprio da Michael Schumacher.
Un tempo che sembrava ormai lontanissimo, sbiadito perfino nel ricordo soltanto un anno fa, allorché si intristiva e si avviava a conclusione la carriera in Ferrari di un altro fuoriclasse, quel Fernando Alonso la cui classe è stata inutilmente sprecata dal crepuscolo della gestione Montezemolo. Con Vettel, la Rossa ha deciso di non ripetere lo stesso errore. E adesso è fin troppo facile parlare di cura Marchionne azzeccata.
A quanto pare, il manager italo-canadese le sta indovinando davvero tutte, in questo avvio di stagione 2015 della Formula 1. Di fronte adesso c’è il colosso Mercedes, la potenza industriale della Germania egemone in Europa personificata. Bello sentir dire a Lewis Hamilton a fine gara “oggi la Ferrari per noi era troppo veloce”. Ancor più bello veder rimontare Kimi Raikkonen dall’ultimo posto in cui era precipitato per una toccata iniziale fino al quarto finale, e immaginarsi che senza quell’incidente in avvio la Ferrari in Malesia avrebbe festeggiato la sua prima doppietta stagionale.
La Germania festeggia dunque, ma ad Heppenheim e non a Stoccarda. L’Italia festeggia ovunque, perché ha visto ritrovare lustro al suo brand più famoso nel mondo, il Cavallino Rampante. Una vittoria ancora più prestigiosa perché favorita da tutte le sue componenti: macchina, piloti, squadra corse ai box, squadra di produzione a Maranello. Hamilton e Rosberg sono stati superati da tutti questi fattori, Vettel ha poi fatto sì che al traguardo i secondi di distacco fossero almeno 8.
L’Inno di Mameli risuona nuovamente sul podio di un Gran premio di F1 676 giorni dopo l’ultima vittoria di Fernando Alonso nel GP di Spagna del 2013. In mezzo, due anni di passione per la Ferrari culminata nella separazione dolorosa dal fuoriclasse delle Asturie (per il quale il periodo nero non sembra ancora terminato, prima il misterioso incidente nelle prove a Montmelò, poi il ritiro di ieri per guasto della McLaren) e nello tsunami aziendale voluto dal patron Marchionne. La Ferrari è tornata, è quello che commentano tutti stamattina in tutte le lingue.
Tra i commenti a caldo sull’impresa del Cavallino spicca su Twitter quello di un tifoso d’eccezione. “Mammamia che Ferrari in Malesia!”. Sono in quel momento le 13, 19, e ancora Valentino Rossi non ha indossato la tuta per salire in sella alla sua Yamaha n. 46. Ancora non lo sa, ma toccherà proprio a lui trasformare questo weekend italiano in qualcosa di leggendario, completando l’impresa della Casa di Maranello. A Losail in Qatar la leggenda della MotoGP parte indietro ma già dopo un giro ha rimontato dal 10° posto alle prime posizioni.
Valentino ha 36 anni, l’età in cui nella maggior parte dei casi il casco e i guanti da moto sono stati appesi al chiodo da tempo. Non i suoi. Se la moto anzi lo sorregge lui è ancora il primo della classe, e ci tiene a dimostrarlo. E’ ancora quello che frena più tardi, anche di un’inezia, nelle curve. Quello che tiene dietro tutti con la sua classe e con la sua esperienza. Tra lui ed il futuro di questo sport, Lorenzo e Marquez il campione in carica, ci sono addirittura altri due italiani, i due portacolori di una splendida Ducati (Emilia Romagna capitale mondiale dei motori), Dovizioso e Iannone. Un podio tutto italiano, Inno di Mameli e basta. Anche se gli occhi sono tutti per lui, è inevitabile. Il Re è tornato, e come per la Ferrari se la meccanica lo sorregge ne vedremo delle belle.
Per ora godiamoci questa giornata leggendaria. Grand’Italia, quando si tratta di correre c’è ancora qualcuno che si ricorda come si fa.


sabato 28 marzo 2015

La giustizia di Pinocchio, assolti Knox e Sollecito

Amanda Knox e Raffaele Sollecito sono di nuovo due liberi cittadini sul territorio della Repubblica Italiana. Dopo 12 ore di camera di consiglio, la Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione stabilisce che il verdetto della Corte d’Assise di Firenze del 2014 è sbagliato, da riformare. Assolti dunque i due imputati con formula piena, “per non aver commesso il fatto”. Cancellati i 28 anni di reclusione della Knox (la cui estradizione dagli U.S.A., dove è tornata dopo la prima assoluzione a Perugia, era comunque tutta da dimostrare) ed i 25 di Sollecito. Resta in carcere solo Rudy Hermann Guede, che aveva chiesto il rito abbreviato ed era stato accontentato, ottenendo 16 anni di galera definitivi per “concorso in omicidio”.
I due accusati principali dell’omicidio di Meredith Kerscher avvenuto a Perugia la notte del 1° novembre 2007 vengono quindi prosciolti, anch’essi definitivamente. Allo stato attuale non si sa pertanto in concorso con chi abbia agito l’ivoriano che ad oggi resta l’unico responsabile condannato per quei tragici fatti. Resta soltanto l’ennesima brutta immagine guadagnata dalla giustizia italiana, al termine (per ora) dell’ennesima brutta vicenda giudiziaria della nostra Repubblica.
Due processi a Perugia, l’annullamento della Cassazione, il nuovo processo di Firenze ed il riscorso finale in Cassazione conclusosi ieri sono le tappe di questa incredibile vicenda, l’ultimo caso di cronaca nera italiana che va in archivio senza colpevoli accertati, e a questo punto accertabili. La crisi pluridecennale della giustizia italiana prosegue, amplificata nelle sue tinte fosche dalla concomitanza con gli sviluppi di altri casi.
E’ di pochi giorni fa infatti l’incredibile verdetto sul caso della sparizione di Roberta Ragusa, la donna che manca da casa dal 2012 senza dare notizie di sé e per la cui sorte presunta era stato indiziato il marito Antonio Logli. L’uomo è stato prosciolto dopo due anni e passa di indagini perché “il fatto non sussiste”. Cioè a dire, non sappiamo se Roberta Ragusa è viva e vegeta oppure se le è successo qualcosa, non si può quindi processare un indiziato di un reato che non si può sapere allo stato attuale se è stato commesso in assoluto. E per stabilire questo lapalissiano principio, sono trascorsi appunto due anni giudiziari.
A Bergamo resta intanto in carcere Giuseppe Bossetti, l’uomo indiziato dell’omicidio di Yara Gambirasio in quel di Brembate. Il delitto è del 2010, il fermo del Bossetti è del giugno 2014, tra poco siamo ad un anno. In mano agli inquirenti soltanto il DNA dell’uomo, rintracciato com’è noto in modo assai rocambolesco e – pare – ultimamente anche messo in discussione. Riscontri oggettivi zero, gossip di paese tanto. Colpevolisti e innocentisti che si affrontano sullo schermo televisivo e nelle piazzette italiane come sempre dai tempi di Girolimoni e di Wilma Montesi. Possibilità di arrivare ad una giustizia giusta che si affievoliscono a vista d’occhio ogni giorno che passa.
Volendo, c’è anche Berlusconi assolto con formula piena e definitivamente al cosiddetto “processo Ruby”. Altri cinque anni di dispiego delle migliori energie investigative – o presunte tali – della Repubblica che alla fine producono una bolla di sapone clamorosa, e oggettivamente prevedibile. Il ricordo del decennale e completamente inutile processo allo scomparso onorevole Giulio Andreotti sbiadisce al confronto.
Cresce intanto il conto spese di questa giustizia che ormai nessuno può più difendere. La legge sulla responsabilità civile dei magistrati, rinviata da forze politiche e lobbies professionali per 28 anni dopo il referendum voluto da Pannella e Tortora, passa alla fine per iniziativa del governo Renzi quasi come un provvedimento qualsiasi. L’unico forse incontestato ed incontestabile dell’attuale esecutivo, che mette tutti d’accordo proprio per il bisogno che la società civile avverte ormai di una simile misura. La reazione di Ilda Boccassini è peraltro sintomatica: “temo adesso soprattutto la cattiveria dei colleghi”. Siamo in queste mani.
La sentenza Knox – Sollecito, sia chiaro, deve essere salutata – almeno in considerazione del suo valore “residuale” – come una vittoria del diritto in senso lato. Meglio un colpevole fuori che un innocente in galera, è un principio irrinunciabile di qualsiasi ordinamento. Lo Stato non è stato capace di stabilire al di là di ogni ragionevole dubbio chi ha ucciso Meredith Kerscher. E’ giusto che questo Stato sia sconfitto in giudizio. E’ giusto che la nostra collettività, che non ha saputo produrre a se stessa altro che questo Stato, paghi il conto delle spese e subisca gli effetti di una giustizia che ormai può dirsi tale soltanto a termini di rubrica.

Welcome back, Amanda and Raffaele.

venerdì 27 marzo 2015

Yuri Gagarin, non si trattano così gli eroi

Per i suoi concittadini all’epoca era un Eroe dell’Unione Sovietica, la massima onorificenza possibile nel suo paese, il massimo livello raggiungibile dall’orgoglio di una nazione che all’epoca ne aveva tanto, per tanti motivi. Per il resto del mondo, fu l’uomo che per primo lasciò il suolo terrestre per andare verso le stelle, ipotecando non soltanto la Corsa allo Spazio che era diventata uno dei principali ambiti di applicazione della Guerra Fredda fra USA e URSS ma vincendo anche quei limiti che erano stati imposti all’essere umano dalla Creazione del Mondo, dall’Alba dei Tempi.
Per gli USA, fu la campana dell’Ultimo Round, l’avviso che se volevano la vittoria finale in quella stessa Corsa allo Spazio era ora di darsi da fare e inventarsi qualcosa, come ad esempio quel programma Mercury che nel giro di pochi anni portò l’Apollo 11 ad allunare nel Mare della Tranquillità.
Yuri Alekseevic Gagarin era nato nei dintorni di Smolensk il 9 marzo 1934 in un kolchoz sovietico e fin da piccolo aveva dimostrato una spiccata propensione per le materie scientifiche. Diplomatosi metalmeccanico, aveva scoperto la sua vera passione iscrivendosi ad una scuola di volo, e poi all’Accademia Aeronautica Sovietica. Quando si diplomò, nel 1957, era pronto per l’appuntamento con il destino. In quell’anno infatti l’Unione Sovietica sorprese i rivali statunitensi ed il mondo intero mostrando che il paese che era emerso dalla Seconda Guerra Mondiale vittorioso grazie allo sforzo sovrumano dell’Armata Rossa ma in realtà ridotto ad un cumulo di macerie e costretto a piangere 22 milioni di morti si era portato talmente avanti nella corsa allo sviluppo tecnologico indotto dalla Guerra Fredda da risultare addirittura in vantaggio.
Il 4 ottobre 1957 l’URSS dimostrò che il volo spaziale era possibile, lanciando in orbita lo Sputnik 1. L’astronave, il cui nome in russo significava compagno di viaggio, rimase in orbita per circa tre mesi mancando di poco il rientro nell’atmosfera. Gli USA, inizialmente in vantaggio da quando nell’ottobre 1947 Chuck Yaeger era stato il primo uomo a raggiungere la velocità di Mach 1 (la velocità di propagazione del suono) a bordo del suo Bell X-1 nel deserto del Nuovo Messico, dieci anni dopo si ritrovarono superati dalla tecnologia di un paese fino a quel momento ritenuto arretrato e pericoloso soltanto grazie all’attività spionistica che aveva consentito il passaggio di campo delle informazioni necessarie alla costruzione di armamenti nucleari.
Di fatto, il lancio della prima astronave americana equivalente allo Sputnik, l’Explorer 1, avvenne nel gennaio 1958 con tre mesi di ritardo, quando già i sovietici stavano lavorando al varo della prima missione nello spazio con equipaggio umano, e avevano appunto selezionato tra gli altri a tale scopo il giovane neo-cosmonauta Yuri Gagarin. Yuri risultò il prescelto tra 20 candidati, e il volo sulla Vostok 1 spettò a lui.
In russo Vostok significa oriente, la riaffermazione di un orgoglio giustificato in quel momento in faccia ad un Occidente incredibilmente superato nonostante un vantaggio tecnologico clamoroso, e nel bel mezzo di quello che veniva già allora definito il secolo americano. La Vostok 1 decollò il 12 aprile 1961 dalla base di Baikonur in Kazakistan, il più antico cosmodromo del mondo. Erano le 9:07 di mattina, e l’Unione Sovietica consegnò alla storia un record che sarebbe rimasto suo per sempre.
Dopo i vari tentativi effettuati con il sacrificio di cagnette come Laika, i russi misero finalmente a punto una navicella spaziale in grado non soltanto di lasciare il suolo terrestre ma anche di farvi ritorno, e finalmente rischiarono il primo uomo in orbita tra le stelle. Toccò a Yuri Gagarin raccontare ad un mondo che dall’alba dei tempi era abituato a considerare quelle stelle come divinità irraggiungibili o come lo sfondo altrettanto irraggiungibile di quel cielo sotto cui si svolgeva la propria esistenza immutabile, che la Terra vista dallo spazio era “blu… meravigliosa… incredibile”.
Il volo più leggendario dai tempi di quello di Icaro durò in tutto 88 minuti. Verso le 10:00 di quella mattina il computer che da Terra controllava la missione e il destino di Gagarin comandò l’accensione dei retrorazzi, e la navicella iniziò la ridiscesa verso il suolo terrestre, superando felicemente l’impatto con l’atmosfera e portando alle 10:20 circa il primo uomo delle stelle a posare di nuovo i piedi sul suolo del suo pianeta d’origine presso Saratov, sul basso Volga. Yuri Gagarin aveva soltanto 27 anni, e un posto nella storia dell’umanità, oltre che nella Galleria degli Eroi del Kremlino.
Da quel momento l’uomo delle stelle, con il petto carico di medaglie tra cui l’ambito Ordine di Lenin conferitogli da Krushev, collaborò allo sviluppo del programma spaziale sovietico ed al mantenimento del vantaggio acquisito sugli americani, che ancora non avevano dato il via al programma Apollo. Gagarin era nello staff che mandò nello spazio Valentina Tereskova, la prima donna cosmonauta, e che sviluppò la Sojutz, apparentemente il nuovo gioiello dell’industria spaziale comunista, in realtà la tomba volante che costò la vita ad alcuni dei colleghi di Gagarin e su cui si arenò la corsa allo Spazio dell’URSS. Proprio in occasione dell’incidente mortale del collega Komarov nel 1967, Gagarin decise di tornare al volo terrestre sugli aviogetti da cui era stato prelevato quando era stato trasformato in cosmonauta, i Mig.
Ma il destino a volte sembra preferire che gli Eroi, anche quelli dell’Unione Sovietica, muoiano giovani. Il 27 marzo 1968, mentre pilotava un caccia Mig - 15UTI, l’uomo delle stelle rimase vittima di un misterioso incidente presso Kirzac nella Russia centrale non lontano da Mosca, e si schiantò al suolo. La sua salma venne tumulata nel Kremlino, come si conveniva. Sull’incidente invece vennero diffuse versioni poco chiare, dal complotto imperialista all’apparizione degli UFO fino alle non perfette condizioni fisiche dello stesso Gagarin che l’avrebbero indotto ad una manovra errata. Probabilmente – si insinuava – finito contro un pallone sonda non visto a causa di qualche bicchierino di vodka di troppo. Versioni sussurrate, ovviamente, perché niente poteva infangare la memoria dell’Eroe, e meno che mai il buon nome dell’Aeronautica sovietica.
Ancora nel 2011, una commissione d’inchiesta incaricata di redigere un rapporto ufficiale e definitivo sulla tragedia che aveva rimandato definitivamente in cielo Yuri Gagarin aveva concluso che la responsabilità era da imputarsi ad una manovra sbagliata del pur esperto pilota, finito contro una mongolfiera per una disattenzione inspiegabile. Soltanto in questi giorni, uno dei membri di quella commissione, l’altrettanto celebre ex cosmonauta sovietico Aleksei Leonov, che ha legato il suo nome ad un’altra impresa prestigiosa quale la prima passeggiata nello spazio di un astronauta (missione Voskhod, 1965), ha detto ai giornalisti di Russia Today quello che evidentemente non si può scrivere, ancor oggi, in un rapporto ufficiale.
Quel giorno, Yuri Gagarin ed il suo copilota Vladimir Seryogin non ebbero scampo perché tre caccia Sukhoi Su-15 si trovarono dove non d ovevano essere, cioè sulla linea di volo del più piccolo velivolo pilotato dall’esperto e glorioso ex cosmonauta orgoglio e vanto dell’URSS. La turbolenza creata dagli aviogetti più potenti condannò a morte Gagarin. Ed avrebbe – se conosciuta dal mondo - diffuso dell’URSS che aveva collezionato tutti quei record prestigiosi nella Corsa allo Spazio una immagine molto meno efficiente. Il che era intollerabile per il regime sovietico nel pieno della Guerra Fredda, ma lo era ed è quasi altrettanto per la nuova Russia di Putin che celebra le glorie del passato con altrettanta enfasi, a prescindere dal tipo di governo che le ha ottenute.

Il figlio di un falegname e di una contadina sovietica che per primo aveva portato i sogni dell’umanità oltre i limiti stabiliti dalla Genesi può finalmente riposare in pace, dunque. Il cielo per lui non aveva segreti né limiti, e chissà se non sarebbe stato destinato a rivedere di nuovo il Pianeta Blu dallo Spazio (magari negli stessi giorni in cui l’Apollo 11 comandato da un’altra leggenda, Neil Armstrong, partiva per il Mare della Tranquillità) se non fosse stato per la scarsa avvedutezza non sua ma di qualche suo collega di cui non sapremo mai il nome. E per l'inefficienza e l'ipocrisia dello stesso governo che gli aveva appuntato sul petto le sue meritate medaglie e a cui lui aveva tributato onore e gloria immortali.

lunedì 23 marzo 2015

In Friuli turnover amaro per la Fiorentina



Fa rabbia. Due punti persi proprio nel momento in cui nelle posizioni di alta classifica tutto è in movimento e di fronte ad una Udinese tutt’altro che trascendentale. Se quella di ieri fosse stata una gara ciclistica, potremmo dire che Roma e Lazio provano ad allungare e solo la Sampdoria riesce per ora a resistere al loro scatto, mentre la Fiorentina rimane piantata sui pedali insieme al Napoli avendo sbagliato rapporto. Ma è una gara di calcio, si gioca – o si dovrebbe giocare – in undici e al posto di un attrezzo tutto sommato dal funzionamento abbastanza semplice ed inesorabile come la bicicletta c’è una palla, che com’è noto è rotonda. E a volte rimbalza come pare a lei e non come ti aspetti.
La vita è un percorso di crescita in tutte le cose umane, e non puoi mai dire di essere arrivato. Perfino ad un mostro sacro come Mourinho può capitare di farsi sfuggire sotto il naso un Salah. Figuriamoci se non può succedere ad un giovane allenatore in ascesa come Montella di lasciarlo in panchina per settanta minuti mentre la sua squadra annaspa. Per quanti progressi abbia dimostrato di aver compiuto Vincenzo soprattutto in questa stagione, l’errore ci può stare sempre.

L’importante, usando ancora metafore ciclistiche, è rimontare in sella subito e riprendere a pedalare. Oppure mostrare – come ha fatto il prode Mario Gomez ai microfoni della televisione subito dopo il match – un comprensibile e condivisibile disappunto per come la squadra ha sciupato malamente i suoi due splendidi gol. Queste cose una grande squadra non le deve fare, e non ci sono alibi, men che meno quello della stanchezza, visto che il mister ha sempre operato un ampio turnover.
Già, il turnover. Magari con due settimane di riposo davanti stavolta a Udine se ne poteva fare a meno, per sfruttare il turno non proibitivo e restare agganciati al gruppo in fuga. Poi ci sarebbe stato comunque il tempo di recuperare affaticati e infortunati. Invece Montella decide di lasciare in panchina l’arma letale egiziana e di scendere in campo con almeno tre giocatori dal rendimento in questo momento problematico, che ottengono per almeno un tempo di esaltare un’Udinese che naviga ai margini della zona pericolosa della classifica, aggrappata al sempiterno e inossidabile Totò Di Natale e a poco altro.
Prima della gara, aveva parlato una vecchia conoscenza del tifo fiorentino. Andrea Carnevale è uno spettro che evoca un passato a cui da queste parti nessuno preferisce riandare col pensiero, se appena può. Quel giugno 1993 è ancora una ferita aperta, con quel biscotto tra romanisti e friulani che costò ai viola una retrocessione in B capace di avvelenare tra l’altro gli ultimi mesi di vita di Mario Cecchi Gori. L’uomo che adesso fa l’osservatore per l’Udinese quel giorno giocava per la Roma e sbagliò un gol a porta vuota che consentì all’Udinese (alla quale l’anno dopo fu praticamente regalato) di salvarsi al posto della Fiorentina.
Carnevale suona adesso la tromba annunciando spavaldo una grande partita dell’Udinese. Anche se buona parte degli attuali portacolori viola erano appena nati all’epoca del fattaccio, la sua faccia e le sue parole sarebbero una motivazione sufficiente, se all’ambiente viola ne mancassero. Nessuno è mai riuscito a saldare veramente il conto ai friulani (ai romanisti forse finalmente sì), che anzi nel corso degli anni sono diventati una specie di bestia nera per i viola, soprattutto nell’era Guidolin – Di Natale.
Adesso sulla panchina bianconera c’è il dandy Stramaccioni. Cambiando gli allenatori, il prodotto non cambia. Una Fiorentina morbida e sconclusionata si offre alle ripartenze friulane coordinate dal vecchio intramontabile bomber napoletano a cui la stessa società viola ha fatto una lunga corte mai andata a buon fine. Almeno due generazioni di difensori viola non ci hanno capito niente su come si marca il numero 10 dell’Udinese. Che lo schiaffo in faccia alla Fiorentina – più o meno doloroso – trova sempre il verso di rifilarglielo. Più facile quando è ben disposta (di atteggiamento, non in campo) come ieri.
Vincenzo Montella lascia in panca Salah e mette in campo insieme al falso nueve un falso centrocampo. Ci sarebbe per la verità un nueve vero nella persona di Mario Gomez redivivo, centravanti vecchia maniera che avrebbe un gran bisogno di una seconda punta che lo aiuti e gli crei spazi, per non ritrovarsi abbandonato in avanti come gli succede anche in Friuli per almeno un tempo. Dietro di lui, se si eccettua un Badelj sempre più in crescita e ieri anche decisivo nell’azione del secondo gol viola, c’è praticamente il nulla.
Kurtic ormai è un caso: potrebbe trovare impiego in tante aziende di proprietà dei Della Valle, non si capisce perché proprio in quella che si occupa di calcio. Borja Valero è un altro caso: gli standard minimi per giocare in serie A sono sempre più lontani, nell’occasione ha il passo di un giocatore di calcio a 5 categoria over 40. Ilicic è il solito equivoco, non giocherebbe nemmeno male e ci metterebbe anche impegno, ma di velocizzare la manovra e saltare l’uomo proprio non se ne parla.
Con questo centrocampo di avventizi il primo tempo è come un’equazione matematica. L’Udinese trova un gol francamente ridicolo dopo un quarto d’ora di possesso palla della Fiorentina senza sbocchi. Sul solito corner a cui mezza Fiorentina assiste come le belle statuine, salta Guilherme e insacca liberissimo Wague. Azione, con tutto il rispetto, da squadra di dopolavoristi.
Segue mezz’ora di confusione da urlo, batti e ribatti che potrebbero portare ad altri danni se l’Udinese avesse qualche altro pezzo buono da affiancare a Di Natale e Widmer nelle ripartenze. Il primo tiro viola nella porta di Karnezis è al 42’, autore Basanta. Si va al riposo convinti che Montella dovrà cambiare qualcosa, questa squadra non è nemmeno parente alla lontana di quella che ha sbancato Roma.
E invece si ritorna in campo con gli stessi undici, ma qualcosa almeno nelle teste e nei cuori è cambiato. Si comincia a cercare la profondità, anziché le linee laterali. Su una penetrazione neanche trascendentale di Kurtic, Wague lo stende nei pressi del limite dell’area. Sul pallone va Ilicic che da fermo i piedi buoni li ha, il suo cross per la testa di Mario Gomez è perfetto, il tedesco può segnare finalmente e splendidamente uno dei gol per i quali era diventato Supermario.
Neanche due minuti dopo, su un tentativo di manovra da parte di una a questo punto frastornata Udinese, Badelj ruba palla a centrocampo e parte in break. Palla a Ilicic che stavolta fa una cosa pregevole, arrivando in area e smarcando Gomez con un assist perfetto. Il tedesco a tu per tu con Karnezis è implacabile e porta clamorosamente la Fiorentina in vantaggio.
Partita ribaltata con una facilità disarmante, malgrado una prestazione fino a quel momento approssimativa. Tipico delle grandi squadre, o che stanno diventando tali. Sarebbe altrettanto tipico a quel punto tenere il risultato attraverso il possesso palla (cosa che a questa Fiorentina dovrebbe essere congeniale) e le ripartenze. L’idea di Montella sarebbe quella, allorché toglie lo spento Borja Valero per Mati Fernandez.
L’idea dell’Udinese infine è di avventarsi su una Fiorentina che pensa di essere già arrivata. E come si diceva, nella vita non lo si può mai pensare. Dapprima ci si mette addirittura Neto ad uscire a vuoto, e meno male che Guilherme dalla distanza non centra la porta, manco fosse la trasformazione di una meta a rugby. Poi arriva la frittata. Come un anno fa a Milano Cambiasso, Di Natale in area viola fa quello che vuole, tanto non lo guarda nessuno. La sua semirovesciata taglia fuori al difesa viola, con Tomovic che sta a guardare come le Stelle di Cronin e Kone che gli sbuca dietro segnando il più facile dei pareggi.
L’idea dei suoi ragazzi (che per sua stessa ammissione non sempre lo stanno a sentire) è quella invece di continuare a giocare a viso aperto, spensierati, tatticamente sciagurati.
A quel punto, Neto può riscattarsi ampiamente perché le tre occasioni successive sono tutte per l’Udinese, che tenta di vincere. Poi tocca a Gomez cercare la tripletta, ma Karnezis gli dice di no. Poi tocca a Montella provare a correggersi inserendo dapprima Salah e poi Gilardino al posto di Ilicic e Joaquin, stasera ben contenuto da Gabriel Silva. Ma è tardi, e l’unico tiro in porta della Fiorentina a quel punto è una ciabattata di Pasqual che non aggiunge nulla alla leggenda del capitano.
Una Roma in stato preagonico riesce a portare via tre punti da Cesena, seguita dalla Lazio che mata in casa il Verona e dalla Samp che maramaldeggia sull’Inter. Proprio la banda di Sinisa farà visita a quella di Montella a Firenze dopo la sosta per la Nazionale, aprendo l’uovo di Pasqua della Fiorentina per lasciarvi chissà quale sorpresa.
C’è bisogno di questa sosta per ricaricare un po’ le batterie, riordinare le idee e recuperare infortunati e fuori forma. Poi comincerà un rush finale con pochi precedenti nella storia viola, impegnata nelle fasi finali di due Coppe e in una rincorsa al terzo posto in campionato che francamente non parrebbe proibitiva. A condizione di non buttare via altri punti come ieri. Tempo per recuperare ormai ne è rimasto poco. E le grandi squadre, come dice Supermario, queste cose non le fanno.

sabato 21 marzo 2015

VIOLA NELLA TESTA E NEL CUORE: Tutti a Kiev


Non è un vento malvagio quello che spira alle spalle della Fiorentina. Dall’urna di Nyon esce la Dinamo Kiev. Si ha un bel dire che a questo punto l’una vale l’altra. C’era di peggio, ed è meglio trovarlo eventualmente più avanti, in una partita secca dove tutto può succedere. Varsavia è ancora lontana, ma Kiev è più di strada di Wolfsburg o Siviglia o San Pietroburgo. Quanto a Napoli, abbiamo un conto aperto grosso come una casa, quest’anno siamo preparati ai “borseggi”, e speriamo di regolarlo a Roma, in quell’Olimpico che ormai è diventato un campo amico, a condizione che non ci sia di mezzo la Lazio.
Si torna a Kiev per la terza volta nella nostra storia. Ere fa, toccò alla Fiorentina che aveva appena vinto il secondo e ultimo scudetto andare a giocare nella capitale ucraina un ottavo di finale di Coppa dei Campioni, allora si chiamava così e la giocava solo chi aveva vinto il proprio campionato nazionale. La Fiorentina era stata la prima squadra italiana nel 1957 a giocarne una finale. Finì 2-0 per un Real Madrid che non avrebbe avuto bisogno di favoritismi arbitrali, eppure li ebbe. Marcos Alonso sa tutto, suo nonno c’era.
Il 12 novembre 1969 a Kiev l’inverno russo era alle porte, eppure la Fiorentina di Bruno Pesaola detto il Petisso (in castigliano, il piccoletto) non tremò. A quei tempi il calcio sovietico era ostico per quello italiano, la Nazionale azzurra aveva perso ai precedenti mondiali inglesi contro quella della falce e martello. Segnò Chiarugi, pareggiò Serebrianikov, Maraschi riportò in vantaggio i viola. A Firenze due settimane dopo, sotto una bussata d’acqua di quelle che si prendono solo allo Stadio (allora denominato semplicemente Comunale), bastò uno 0-0 per continuare la corsa. Che purtroppo era destinata ad interrompersi al turno successivo. I quarti si giocarono a marzo, la Fiorentina era in fase calante e il Celtic di Glasgow la eliminò con 3 gol all’andata e limitando i danni a 1 solo subito al ritorno in Toscana.
Passarono gli anni, la Fiorentina di Baglini diventò un ricordo sbiadito. Finché Pontello provò a rinverdirne i fasti. Gli andò male in campionato almeno due volte, ma in Coppa UEFA il 1989-90 sembrò finalmente l’anno buono. I viola avevano vinto il primo e unico titolo internazionale nel 1961, la prima edizione di Coppa delle Coppe (allora riservata ai vincitori delle Coppe di Lega nazionali). Poi basta. 
Quell’anno, la Fiorentina stentò in campionato, salvandosi solo all’ultima giornata con un 4-1 all’Atalanta in cui concluse la sua carriera quel giorno un certo Cesare Prandelli. Ma per uno dei misteri tipici del calcio, in Coppa la Fiorentina volava. Soprattutto perché aveva in squadra uno dei migliori giocatori del mondo di quell’epoca, Robertino Baggio, che le difese avversarie non sapevano marcare. Dopo aver fatto fuori Atletico Madrid e Sochaux (e non era granché più facile di adesso, se ci volete credere), fummo sorteggiati di nuovo a Kiev, di nuovo all’inizio dell’inverno.
Se era stata dura nel 1969, stavolta lo fu ancora di più. Erano gli ultimi anni dell’Unione Sovietica, paradossalmente gli anni d’oro del suo calcio. Erano gli anni in cui l’URSS metteva paura al Brasile, e la Dinamo Kiev forniva a quella nazionale buona parte dei suoi effettivi, fuoriclasse assoluti, come Oleg Protassov e Igor Belanov, uno dei pochi russi capaci di vincere il Pallone d’Oro oltre a Oleg Blochin e Lev Jascin.
Erano gli anni di Valery Lobanovs’kyi, il colonnello dell’Armata Rossa che allestì una delle più forti squadre di quei tempi, capace di arrivare ad un passo dalla vittoria dell’Europeo contro Gullit, Van Basten & C. Contro questi avversari, la Fiorentina fece un mezzo miracolo di cui non la accreditava capace pressoché nessuno. I ragazzi del povero Bruno Giorgi, recentemente scomparso, superarono se stessi vincendo a Firenze con un rigore di Baggio, e resistendo nel gelo di Kiev agli assalti ucraini meglio di quanto avevano saputo fare Napoleone prima e Hitler poi. 0-0, un risultato decisivo sulla strada di quella doppia finale che tra Torino ed Avellino avrebbe proposto purtroppo avversari di ben altra natura, per i viola del tempo insormontabili.
L’inverno è passato ormai, ed anche il calcio ucraino non è più quello di prima, ora che la pallina a Nyon si è aperta rivelando il nome del prossimo avversario dei ragazzi di Montella. Stavolta siamo favoriti noi, e se a Kiev qualcuno ha visto le ultime partite della Fiorentina di certo a quest’ora sta sagramentando per un sorteggio non certo benevolo. L’altra sensazione è che veramente dietro le spalle dei viola stia soffiando un vento ben diverso rispetto al passato anche recente.
Stiamo a vedere. Nel frattempo domani si va a Udine a giocare finalmente una partita normale. Una di quelle che possono anche andar male, ma solo se si prende sottogamba un avversario sulla carta inferiore ma agguerrito, magari anche soltanto per stanchezza mentale (quella fisica sarebbe anche comprensibile). Udine ci ha fatto piangere del resto tante volte, con il vecchio Di Natale e la buonanima di Guidolin, recente pensionato. Sempre in tema di amarcord, si cominciò tanti anni fa. Noi avevamo in squadra Daniel Passarella e Ciccio Graziani, mostri sacri dei primi anni 80. Loro avevano Paolino Pulici, gemello d’attacco di Ciccio nell’ultimo Torino capace di vincere uno scudetto nel 1976 con la vecchia conoscenza Gigi Radice in panchina. Finì 2-1 per loro qui a Firenze, l’unico gemello che segnò fu quello dell’Udinese.
Ha tanti conti da regolare la Fiorentina. Vediamo quanti riesce a saldarne di qui alla fine. Dio no xé furlan, si no paga oggi paga doman, dicono a Trieste dove non amano i friulani (c’è lo stesso rapporto che c’è da queste parti fra Pisa e Livorno). Poi la pausa, e si apre l’uovo di Pasqua che speriamo abbia per noi aficionados viola ancora tante graditissime sorprese.

VIOLA NELLA TESTA E NEL CUORE: Marcia su Roma


19 marzo 2015

Stasera va in onda l’ultimo atto di questa sfida infinita, quello che dovrà dire chi resta dentro e chi va fuori, quello che consentirà ad una delle due di mettere un segno positivo ad un bilancio stagionale per ora in perfetta parità (anche se a vantaggio dei giallorossi pesa l’ultimo gol di Keita segnato fuori casa). Quello che stabilirà quale delle due società può mettere un segno positivo all’intera stagione, mentre l’altra dovrà rassegnarsi a “ripassare l’anno prossimo”.
Si parte per Roma con alcune consapevolezze. Quest’anno si gioca meglio fuori casa piuttosto che in casa e anche se la Roma ha il vantaggio del gol segnato in trasferta stasera l’onere di fare la partita tocca a lei, alla Fiorentina tocca il piacere di colpirla in contropiede. Oppure di bloccarla a centrocampo come già successe un mese fa in Coppa Italia, nella partita che dette l’avvio al ciclo di ferro – o forse sarebbe meglio dire, a questo punto, d’oro – che le ha fruttato il riavvicinamento alle prime posizioni in campionato, un vantaggio si spera decisivo per arrivare alla seconda finale consecutiva di Coppa Italia e qualche chance tutt’altro che trascurabile di arrivare ai quarti di Europa League.
E’ una Fiorentina che ha fatto tanto, dicevamo nei giorni scorsi che un filotto di partite così non lo metteva insieme probabilmente dai tempi del secondo scudetto. Questo glielo dobbiamo riconoscere fin d’ora, a prescindere da come andrà a finire già stasera. Questa Festa del Papà i babbi fiorentini aspetteranno comunque a festeggiarla alle undici di questa sera, le frittelle di San Giuseppe sono rimandate al fischio finale dell’Olimpico, altrimenti rischierebbero di andare forse di traverso.
E’ una Fiorentina infatti che dal punto di vista degli obbiettivi stagionali non ha fatto ancora nulla, va detto anche questo. Andare a Roma senza vedere il Papa, o almeno accontentarsi di farlo senza averci provato fino in fondo, sarebbe a questo punto delittuoso. Nessuno getterà la croce addosso ai nostri ragazzi ed al nostro allenatore se finiranno questa e le prossime partite stremati e non vittoriosi, avendo però lottato al meglio di se stessi. Nessuno perdonerebbe invece di veder buttare via l’occasione per il secondo anno consecutivo per mancanza di coraggio o per insipienza.
A proposito, tre botti della Juve in Champion’s. Dopo questa Roma pericolosissima perché sull’orlo del baratro ci sono loro, i rivali di sempre, gli avversari con cui non si farà mai pace. La Juve ai Quarti di CL è una splendida notizia, perché avrà da giocare due partite assai dure in più (e senza due pezzi buoni come Pirlo e Pogba), e a questo punto della stagione non può più contare su sorteggi benevoli.
Ma una cosa per volta, portiamo a termine intanto questa Marcia su Roma. Neto, Gonzalo, Savic, Tomovic, Alonso, Fernandez, Badelj, Borja Valero, Joaquin, Babacar, Salah. E’ praticamente il meglio che possiamo mettere in campo stasera, “per esser di Firenze vanto e gloria”. Giuseppe Rossi si è riaggregato al gruppo, sì, ma di quelli che guardano la partita dalla Tribuna. Mario Gomez è a riposo, anche quest’anno l’hanno visto più all’INAIL che in campo. Peccato perché proprio qui a Roma aveva fatto vedere la differenza tra averlo e non averlo.
Forza ragazzi. Andiamo a vedere le carte di questa Roma, se sono un bluff o se sono “serviti”. Chi va in campo ce la metta tutta. Alla peggio, che si possa almeno dire “mancò la fortuna, non il valore”.

VIOLA NELLA TESTA E NEL CUORE: Tutto in tre giorni


16 marzo 2015

Ci si gioca tutto in tre giorni. Come è giusto che sia. Sono queste le situazioni che fanno crescere, che fanno diventare – se uno le regge – quella grande squadra e quella grande società che sogniamo da tanto tempo. Dai tempi di Pontello, quando i tifosi viola cominciarono a pensare in grande e arrivarono le prime delusioni, con tanto di autocommiserazione: “non ci faranno mai vincere”.
E’ venuto il momento invece di riprovarci. Un anno fa la corsa si fermò contro una Juventus che non aveva dimostrato di essere più forte tecnicamente, ma semmai più attrezzata psicologicamente (la differenza, in fondo, la fecero due calci di punizione, uno calciato malamente da Borja Valero, l’altro magistralmente da Andrea Pirlo), e poi contro un Napoli a cui fu permesso di fare – dentro e fuori dal campo – di tutto e di più. Quella notte all’Olimpico furono “liberati i mannari”, inevitabile che la Fiorentina finisse sbranata.
Un anno dopo, c’è tanta consapevolezza in più, oltre ad un Salah che potevamo solo immaginare nei sogni più sfrenati. Ci sono anche gli stessi infortuni a lungo termine ed alcune scelte societarie di contorno forse discutibili. Ma c’è anche la consapevolezza che, per quanto riguarda questo “ciclo” almeno, è ORA O MAI PIU’. La proprietà Della Valle è la seconda più lunga della storia della Fiorentina, dopo quella del fondatore, il leggendario marchese Ridolfi. E per adesso è ferma ai proverbiali “zero titoli”.
Il ciclo che si sta consumando è il secondo importante da quando i Della Valle presero la Fiorentina. Dopo Prandelli, Montella cerca di lasciare sulla panchina viola un segno che sia qualcosa di più dei complimenti ricevuti per il bel gioco e per le innovazioni tattiche, un trofeo da aggiungere ad una bacheca ormai ferma al 2001 e che sta diventando ogni giorno più triste e polverosa. Stando ai progetti dichiarati della società, questo intendimento è lo stesso dei proprietari della Fiorentina.
Dei tifosi non se ne parla, la voglia di veder rivincere qualcosa è tanta, al netto del pessimismo insito in quel purtroppo generalizzato “non ci faranno mai vincere” che dopo il 2002 è diventato un coro imponente come quello del Nabucco.
Il momento è qui, adesso. Basta lamentele sui sorteggi e sugli arbitraggi, sulla Federazione, sul potere dentro e fuori dal calcio, sulle strisciate e sulel altre “colorate” che sempre e comunque vengono aiutate. Cominciamo ad aiutarci da soli. Con la Juventus l’appuntamento decisivo è più avanti, c’è tempo per concentrarsi su una “vendetta sportiva” che sarebbe storica e riparatrice di tante amarezze subite negli ultimi 30 anni.
Adesso è il turno di Milan e Roma. Entrambe mai così abbordabili negli ultimi anni. Entrambe ostacolo non insormontabile verso un risultato di prestigio. Stasera i rossoneri proveranno a salvare la panchina di Inzaghi e ad impedire alla Fiorentina di riavvicinarsi al Napoli, lasciato fermo al palo dagli amici veronesi. Giovedi all’Olimpico il “dentro o fuori” con i giallorossi, verso i quarti di finale di una Europa League sfiorata nel 2008 e malissimo gestita l’anno scorso.
Azzardiamo un pronostico? E’ più difficile stasera rispetto a giovedi. Il Milan è all’ultima spiaggia per salvare tante cose, in primis tecnico e stagione complessiva. E poi è un fatto che quest’anno la Fiorentina rende di più lontano dal Franchi, ha vinto assai più fuori casa che in casa, con buona pace delle velleità spagnoleggianti dei profeti del tiki taka. In contropiede si va che è un piacere, e l’unica vittoria sulla Roma della gestione Montella è arrivata proprio a Roma. Allora ci fu un Gomez miracolosamente risorto e quasi tornato ai suoi livelli di Bundesliga. Ora c’è un Salah che come il Cuadrado prima maniera (e forse in certi momenti anche di più) sembra un’ira di Dio, anzi di Allah, inarrestabile. Padoin è ancora negli spogliatoi dello Juventus Stadium a cercare di ripettinarsi.
Forza ragazzi, il momento è qui, adesso. Ci sarà tempo per riposarsi, meglio se portandosi a letto qualche Coppa come orsetto della buonanotte. Ci pare di ricordare che è una sensazione niente male.

venerdì 20 marzo 2015

Si sente solo Firenze



Non si fermano più. O meglio, dovranno fermarsi dopo Udine a causa della sosta pasquale, e così poter recuperare anche qualche infortunato, ma se dipende da loro a questo punto vanno a dritto. Da Roma a Roma è passato un mese, costellato di vittorie clamorose. Dai quarti di Coppa Italia agli Ottavi di Europa League. Tutte le strade hanno riportato a Roma, intesa come Stadio Olimpico. Dove la Fiorentina ha alla fine clamorosamente stroncato la Roma, intesa come squadra, aprendosi davanti una primavera che rischia di essere altrettanto storica dell’inverno appena concluso.
Le squadre che scendono in campo alle 19,00 sono in condizioni diametralmente opposte. Alla Roma troppi impegni a cui far fronte con una panchina non adeguata - e ulteriormente indebolita a gennaio - stanno presentando il conto. I giallorossi sono nella condizione tipica di chi è sull’orlo di una crisi non ancora maturata, basta un episodio in un senso o nell’altro a far precipitare le cose o a farle ripartire per il verso giusto. In più, quello che una volta era un motivo di forza, il pubblico, adesso lo è diventato di preoccupazione. I romanisti sono pronti ad esplodere, se la squadra farà altri passi falsi.
La Fiorentina al contrario ha trovato come per incanto fiducia, condizione e rinforzi adeguati. Si rende conto della propria forza accresciuta e delle difficoltà dell’avversario. E viene messa in campo da Montella con tutte le intenzioni e molte chances di approfittarne. Al punto da correre anche qualche rischio calcolato.
Almeno tre giocatori non sono al meglio delle condizioni: Savic regge per 40 minuti prima di arrendersi agli effetti di un rientro affrettato, ma a quel punto di fronte c’è un avversario allo sbando, seppellito da tre gol pesantissimi; Babacar ha una condizione approssimativa, qualunque avversario è in grado di sopravanzarlo o di spostarlo con una spallata, è sempre in ritardo sui palloni e ciabatta malamente fuori l’unica occasione che Salah riesce a confezionargli come un sarto di gran classe; chi invece mostra timidi segnali di ripresa è Borja Valero, che gioca ai suoi ritmi compassati solitamente dannosi per l’efficacia degli affondi della squadra, ma stasera invece utilissimi per trattenere il pallone al di fuori della portata dei romanisti, costretti spesso a torelli estenuanti.
Dopo venti minuti la sorte di questo spareggio italiano per l’Europa è già segnata. Sembra quasi di riassistere a Brasile - Germania degli ultimi mondiali. La Roma crolal al suolo come un pugile suonato. La Fiorentina dilaga come mai altre volte a memoria di tifoso.
All’8’ Joaquin dà dentro per Mati Fernandez che affonda secco, Holebas è in ritardo e lo stende, l’arbitro non ha il minimo dubbio: calcio di rigore e possibilità per i viola di annullare subito l’handicap del gol preso in casa dai giallorossi.
L’arbitro è il turco Cuneyt Cakir, uno dei migliori in circolazione. Agli ultimi mondiali ha diretto una partita non facile, la semifinale Argentina – Olanda, e nessuno ha avuto da recriminare. Stasera dà un saggio della distanza non tanto tra gli arbitri europei e quegli italiani, ma piuttosto tra le regole europee e quelle italiane. Sul dischetto va Gonzalo Rodriguez, che dà prova di hombrìa – come dicono al suo paese – calciando il rigore senza esitazioni alla sinistra di Skorupski, dimostrando di aver completamente assorbito l’errore di Marassi con la Sampdoria.
Cakir gela tutti, facendo ripetere il tiro. Le immagini in replay mostrano che ha ragione e non si merita le maledizioni dei tifosi viola. Prima ancora che Gonzalo tiri, mezza Roma e mezza Fiorentina si sono riversate in area. In Italia non ci fa mai caso nessuno, ma all’UEFA a queste cose ancora ci stanno attenti. Peccato che Basanta ecceda con le proteste facendosi ammonire e guadagnandosi uno stop per la prossima partita di Coppa. In compenso, Gonzalo è un argentino dagli occhi di ghiaccio e ripete il tiro vincente semplicemente cambiando angolo: stavolta Skorupski a sinistra e pallone a destra.
La Roma, che non aveva cominciato nemmeno malaccio, accusa il colpo che temeva potesse arrivarle. Molti dei suoi giocatori sono pronti ad andare nel pallone. Ha un bello sbracciarsi con una mimica divertente ed eloquente il suo allenatore Garcia. L’assenza di Naingollan si sente, De Rossi annaspa in debito di ossigeno, Totti osserva sconsolato dalla panchina, il solo Florenzi prova a combinare qualcosa di buono, come un predicatore nel deserto. Llajic viene ben presto beccato da un pubblico che ha già perso la pazienza e viene risucchiato nella mediocrità generale dei suoi.
Dall’altra parte, con il vento che ormai soffia maestoso dietro le spalle, i viola sembrano undici fenomeni, e in qualche caso addirittura lo sono. Passano neanche 10 minuti dal rigore che si compie il destino della Roma. Su un retropassaggio diretto in angolo Skorupski va a bloccare il pallone rilasciandolo sui piedi dell’accorrente Marcos Alonso, che con notevole intuizione ha creduto in una possibilità di papera da parte del portiere polacco. Per lo spagnolo è un gioco da ragazzi portarsi il pallone fino in rete e andare sotto la curva dei tifosi viola a godersi il delirio che ha appena scatenato.
Da quel momento allo Stadio olimpico si sente solo Firenze. Il pubblico di fede giallorossa abbandona lo stadio per rientrarvi soltanto nei minuti finali a dar sfogo ad una pesantissima contestazione. Sembra di stare al Franchi, quando Basanta segna al 21’ il terzo gol con uno stacco di testa imperioso su calcio d’angolo, che restituisce con gli interessi quello di Keita che era costato il pareggio una settimana prima. Nel corso dei festeggiamenti, Borja Valero lo colpisce per eccesso di gioia ferendolo ad uno zigomo, ma stasera va bene tutto. Tutto fa parte di un film che a Firenze verrà riguardato a lungo.
La Roma è in ginocchio, la Fiorentina non infierisce, anche perché le energie vanno dosate. Se da una parte i muscoli cedono a Keita, dall’altra si riacutizza l’infortunio a Savic. A qualcuno la stagione densa di impegni sta presentando il conto. Entrano rispettivamente il giovane Verde e Tomovic. Non cambia niente, anche se la Roma un paio di sussulti li ha, la prima volta con Llajic che impegna Neto in una ribattuta a pugni chiusi, la seconda con Pjanic che supera il portiere, nella circostanza salva Borja Valero sulla linea.
La ripresa è un conto alla rovescia, per la Fiorentina verso la festa, per la Roma verso la inevitabile contestazione. Salah tenta di ripetere per due volte la fuga per la vittoria riuscitagli a Torino contro la Juventus, una volta gli dice di no la traversa, la seconda il palo. Babacar si mangia un assist al bacio dell’egiziano, prima di essere sostituito da Vargas. Il senegalese non la prende bene, lunedi scorso Montella aveva quasi dovuto insistere per farlo entrare in campo, stasera deve tranquillizzarlo per la sostituzione. Qualcuno dovrebbe parlare con questo ragazzo e ridargli un po’ di serenità, che al presente sembra avere smarrito.
C’é ancora spazio per un contropiede di Gervinho che sembra la fotocopia di quello che aveva fruttato il 2-0 alla Roma nella prima di campionato. Quanto tempo è passato, allora i viola erano alle prese con il caso Brillante, adesso è sufficiente che Basanta accompagni l’ivoriano verso la linea di fondo perché questi si intrighi da solo sul pallone rimediando una figura abbastanza modesta.
C’è spazio anche per l’espulsione finale di Llajic per doppia ammonizione. Il serbo sembra aver compromesso la sua permanenza anche qui a Roma, come già successe a Firenze un paio di anni fa. Un altro giocatore di talento che stenta a trovare adeguata maturità. Esce mentre gli ex compagni in viola fanno melina finale e mentre gli attuali compagni in giallorosso si preparano a subire la contestazione dell’Olimpico inferocito.
Ci vuole tutto il senso di responsabilità di due romani de Roma come Totti e De Rossi per convincere la squadra giallorossa ad andare ad assumersi le proprie responsabilità di fronte ad una Curva Sud che non risparmia né sputi né insulti. Sembra un Colosseo inferocito che invoca l’ingresso dei leoni a sbranare i cristiani.
Eppure, al di sopra di questo magma di furore ribollente, si continua a sentire soprattutto Firenze. Dall’altra parte dello stadio, gli oltre 2.000 tifosi viola abbracciano idealmente i propri gladiatori. La Roma che una volta sembrava invincibile è stata raggiunta e superata. Le porte dell’Europa si sono di nuovo dischiuse.
A Campo di Marte, nella notte, ad assistere al ritorno della squadra e a Salah che si fa i selfie con i tifosi c’è un mare di folla come non si vede da quando Osvaldo espugnò Torino, e prima ancora da quando Batistuta espugnò Bergamo. In Via Mannelli non entra più nemmeno uno spillo.
Si aspetta il sorteggio di Nyon. Da ieri sera Firenze si sente in tutta Europa. Nessuno si augura di incontrare questa Fiorentina.

giovedì 19 marzo 2015

La Festa degli ultimi Papà



FIRENZE - Forse sono feste che ormai appartengono ad un piccolo mondo antico in via di sparizione, arrivati ad un’epoca ormai in cui ci si riferisce ai propri familiari come “genitore 1” e “genitore2” e si ammette a tale riguardo la più ampia varietà di genere. Forse ormai gli unici che festeggiano realmente sono i venditori di dolciumi associati per tradizione a queste festività, e con i quali si tenta di sopperire per almeno un giorno alla carenza di sentimenti o quantomeno alle difficoltà di esprimerli tipica un po’ di tutti quelli che una volta si chiamavano affetti, in primis  quelli più naturali, che legano o dovrebbero legare genitori e figli.
Sono sempre feste nel calendario, tuttavia, anche se una legge del 1977 ne ha soppresso gli effetti civili, al pari di tante altre festività religiose o comunque popolari non più celebrate. Il 19 marzo resta come Festa del Papà in un mondo in cui ormai alla figura paterna in ambito non solo familiare ma più generalmente civile non si sa più che valore attribuire. E non tanto da parte dei malcapitati figli di questo nostro tempo, o degli altrettanto malcapitati padri sopravvissuti alle conseguenze non sempre positive della battaglia per il divorzio e dell’onda lunga delle sue conseguenze di dettaglio. Ma anche e soprattutto da parte della nostra società civile e del suo ordinamento giuridico.
E dire che rispetto a quella della Mamma, arrivata incredibilmente tardi (anni Cinquanta) nel paese più “mammone” che esista sulla faccia della Terra, l’Italia, quella del papà aveva saputo legarsi astutamente (o forse soltanto inevitabilmente, dato il connotato iniziale profondamente religioso) alla figura del Padre per eccellenza, quello putativo di Gesù, San Giuseppe.
Per quanto Figlio di Dio, Gesù nella sua vita terrena aveva accettato senza discussioni di sottomettersi alla figura paterna dell’uomo che era il legittimo consorte della propria madre, la Vergine Maria. Ciò aveva tolto ogni possibile ombra o dubbio circa la natura, l’essenza della Sacra Famiglia. E di tutte le altre famiglie che a partire dall’apparizione della Stella Cometa avevano preso ad ispirarsi a quella, come supremo precetto religioso.
San Giuseppe con Gesù Bambino, Chiesa di San Lorenzo in Fonte, Roma
San Giuseppe per i Cristiani è dunque l’archetipo paterno senza discussioni. Il 19 marzo è il giorno del calendario in cui nel mondo cattolico si festeggia la sua figura, e dunque è anche la Festa del Papà. Da quando esiste la Chiesa Cattolica il santo sposo della Madre di Dio viene celebrato quel giorno. In realtà una Festa del Papà, o Babbo che dir si voglia, dalle implicazioni anche e soprattutto laiche è nata – come molte altre del calendario moderno – oltreoceano.
Ai primi del Novecento gli attivisti pacifisti americani erano in cerca di simboli da contrapporre ai venti di guerra che avevano preso a spirare sempre più intensi. Fu Anna Jarvis a patrocinare per prima nel 1908 il Mother’s Day in onore della propria madre, un’attivista in favore della pace. Il successo fu immediato, e nella società americana così pronta a sposare le battaglie per l’uguaglianza universale dei diritti, ebbe subito come contraltare un Father’s Day patrocinato da Sonora Smart Dodd, una metodista legatissima alla memoria del proprio padre veterano della Guerra di Secessione e abolizionista.
Nel Secolo Americano, l’Europa era ben disposta ad acquisire nuove tradizioni o rinfrescare le proprie secondo le mode del Mondo Nuovo. Salvo scoprire un bel giorno che le feste del calendario erano diventate troppe, e c’era bisogno di sfoltirle in quanto l’Italia era ormai seconda solo al Messico per la presenza di giorni non lavorativi. La legge 54 del 5 marzo 1977, patrocinata dal terzo Governo Andreotti, aveva queste finalità, ed in una prima applicazione si spinse addirittura ad abolire l’Epifania.
Se le mamme erano già state appoggiate alla seconda domenica di maggio per le celebrazioni, i padri dovettero rassegnarsi ad andare a lavorare anche nella propria festa, accompagnati (quando andava bene e sempre più di rado e meno sentitamente) dagli auguri dei figli. Confortati quasi soltanto dalle tradizionali frittelle di san Giuseppe, o crespelle, o zeppole a seconda della latitudine regionale, il dolce che si dice lo stesso padre terreno di Gesù vendesse per strada per mantenere la famiglia nei tempi duri della fuga dagli armigeri di Erode.
Ma era nulla in confronto a quello che il diritto di famiglia, a partire dai primi sviluppi della legge Fortuna – Baslini sul divorzio, avrebbe riservato loro nei decenni successivi. Dapprima per mero effetto della sciagurata legislazione e della sua altrettanto sciagurata applicazione italiana. Dei due coniugi in procinto di separazione, la colpa sotto forma di peccato originale è stata riservata a prescindere al padre, in una sorta di rigurgito sotterraneo – ma neanche poi tanto – di fondamentalismo religioso. I termini delle separazioni legali devono essere punitivi al punto da rendere impossibile materialmente la sopravvivenza ai padri, a meno che non abbiano risorse di famiglia accumulate.
Non bastava. Solo l’Europa, questa Europa, poteva peggiorare la situazione dei padri italiani, come del resto per gli altri cittadini. I Padri separati dai figli, vittime di sottrazione internazionale di minore sono l’ultima perla aggiunta – o consentita – dal diritto comunitario alla genitorialità martoriata e negletta.
In questo 19 marzo 2015, la manifestazione celebrativa più clamorosa – se non l’unica -  è quella organizzata a Roma dal flash mob “Festa del papà senza papà”. “Domani (oggi, n.d.r.) in occasione della Festa del papà, per molti padri non ci sarà nulla da festeggiare. Per questo abbiamo voluto lanciare l’ennesimo appello alle Istituzioni per garantire, a tutti i livelli, il diritto alla genitorialità”, ha dichiarato Roberta Angelilli, già Mediatore del Parlamento europeo per i casi di sottrazione internazionale di minori e Direzione Nazionale NCD – diritti dei minori.
“In Italia, secondo gli ultimi dati disponibili, sono circa 345 i casi di sottrazione internazionale di minore da parte di un genitore, un fenomeno in crescita nel nostro Paese e in Europa. Si stima infatti – ha proseguito – che in Europa ci siano 16 milioni di coppie binazionali. In particolare ogni anno si celebrano circa 310mila matrimoni, che nel 50% dei casi si concludono con una separazione o un divorzio: in questi casi a subire le conseguenze sono soprattutto i minori contesi tra i due genitori, ma anche tra due diversi Stati e due sistemi giuridici differenti. Inoltre nel 70% dei casi sono i papà a subire discriminazioni dal punto di vista burocratico e processuale”. E qui si rientra nell’alveo dell’ingiustizia generale nazionale.
Siamo il ventre molle dell’Europa da ben prima che Winston Churchill ci definisse tale. Abbiamo coltivato questa nostra caratteristica gelosamente nel corso dei decenni seguenti alla seconda guerra mondiale. L’abbiamo arricchita di nuovi aspetti praticamente ad ogni presunto progresso fatto dagli ordinamenti giuridici  nazionali e comunitari. Siamo ormai padri – e madri – di una razza in via di estinzione.
Buon San Giuseppe a tutti.