domenica 26 aprile 2015

Cernobyl

Alle 1,23 del mattino la fortissima pressione esercitata dall’idrogeno liberato dal brusco ed incontrollato aumento della temperatura del nocciolo del reattore n. 4 provocò la rottura delle tubazioni del circuito di raffreddamento. L’idrogeno entrò in contatto con la grafite incandescente delle barre di controllo e con l’aria. Pochi istanti dopo, l’esplosione terrificante fu capace di scoperchiare il reattore proiettandone in aria il pesante coperchio di oltre 1.000 tonnellate.
Dal cilindro non più chiuso ermeticamente nelle ore successive si disperse nell’atmosfera una quantità tale di isotopi radioattivi da far classificare l’incidente al massimo grado della speciale scala INES con cui si misurano gli incidenti nucleari: livello 7. E da contaminare significativamente tutta l’Europa Orientale e la Scandinavia e in misura minore ma comunque preoccupante anche quella Occidentale ed i Balcani.
Perfino sulla costa orientale del Nord America furono riscontrate le tracce di radioattività che attestavano la gravità dell’incidente occorso al reattore n. 4 della centrale nucleare Vladimir Ulianov Lenin, situata nell’Ucraina settentrionale a poca distanza dal confine con la Bielorussia, all’epoca entrambe facenti parte della Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche.
Cernobyl. Un nome che è diventato sinonimo di oscuro terrore nella storia contemporanea, come quello di un protagonista terrificante delle favole che si raccontavano una volta ai bambini per farli star buoni attraverso l’inculcazione della paura. Un nome che significa la madre di tutti i terrori, la fine del mondo, l’Armageddon che già i padri della fissione nucleare avevano prefigurato, mettendo in guardia l’umanità sul lato oscuro della loro scoperta per altri versi epocale.
Dopo Hiroshima e Nagasaki, il mondo si era abituato a vivere sotto la cappa di terrore distesa dal progresso nucleare. Rispetto alla bomba atomica semmai, le centrali nucleari avevano fino a quel momento rappresentato il volto buono di quel progresso. La dotazione all’umanità di una potenza energetica che le generazioni precedenti avevano soltanto potuto sognare attraverso le visioni di pochi geni della scienza primordiale.
La carta geografica delle nazioni più sviluppate si era costellata a mano a mano del simbolo del nucleare ad indicare le località in cui a partire dagli anni sessanta avevano cominciato ad entrare in funzione le centrali, benedette dalla definizione di atomi per la pace attribuita loro dal presidente americano Dwight D. Eisenhower e non più smentita dai successori o da altri leader occidentali almeno fino al 26 aprile 1986.
Three Mile Island, la centrale della contea di Dauphin, Pennsylvania che il 28 marzo 1979 fu teatro del primo grave incidente nucleare (tutt’ora il più grave sul continente americano) ed in cui fu sfiorata – e per fortuna poi scongiurata – la catastrofe, passò quasi sotto silenzio. Erano i tempi in cui il neopresidente Ronald Reagan faceva togliere dal tetto della Casa Bianca i pannelli solari fatti installare dal suo ecologista predecessore, Jimmy Carter, e nessuno batteva ciglio. L’opinione pubblica non era pronta a considerare il terrore nucleare, che non fosse quello ormai consueto prodotto dagli SS-20 sovietici puntati su tutte le città occidentali importanti.
La squadra dei vigili del fuoco del tenente Vladimir Pravik
A Cernobyl, sette anni dopo, non si poté nascondere nulla, quand’anche il regime sovietico agonizzante sotto la guida di Mikhail Gorbacev avesse voluto farlo. L’incidente fu talmente grave fin da subito da monopolizzare i media di tutto il mondo e da provocare uno shock irreversibile. Secondo le ricostruzioni successive, più che a difetti di progettazione della centrale la catastrofe fu ascrivibile ad errore umano. Il 25 aprile di quell’anno il reattore n. 4 doveva essere fatto oggetto di normali operazioni di manutenzione, che furono condotte a quanto pare con faciloneria e negligenza.
Come già era successo a Firenze per l’Alluvione di vent’anni prima, la struttura fu sottoposta ad una sollecitazione eccessiva provocata da operazioni umane sbagliate, nella fattispecie un brusco, incontrollato e presto non più controllabile aumento della potenza e quindi della temperatura. L’acqua di raffreddamento si scisse nelle molecole di ossigeno e idrogeno. Quest’ultimo a pressione elevata provocò il disastro.
La radioattività liberata il 26 aprile 1986 dal reattore della centrale Lenin di Cernobyl provocò nell’immediato 57 vittime, i vigili del fuoco accorsi per far fronte alle conseguenze immediate dell’esplosione. Il resto lo fece il fall out radioattivo, la cui entità fu amplificata dalle condizioni metereologiche del continente europeo. I venti e le zone di alta pressione a cuneo spingevano inesorabilmente gli isotopi verso ovest.
la "zona proibita"
Secondo i dati accertati successivamente da appositi comitati istituiti dalle Nazioni Unite, da Greenpeace, dal gruppo dei Verdi presente fin da prima dell’incidente nel Parlamento Europeo e dalle altre associazioni ambientaliste che sorsero proprio sulla spinta emotiva causata dall’incidente stesso, è stato calcolato che le vittime ufficiali dell’esplosione del reattore 4 ammontino ad una cifra compresa tra i 6.000 morti indicati dalle autorità ufficiali ed i 60.000 piuttosto stimati dalle organizzazioni non governative. L’area di Cernobyl è a tutt’oggi proibita, interdetta alla popolazione, e lo sarà per lungo tempo.
In realtà, non è dato sapere qual è stata la ricaduta effettiva sulla salute degli europei (e non solo) della diffusione degli isotopi radioattivi. Su chi era vivo all’epoca e sui bambini nati negli anni successivi da genitori che avevano respirato e si erano nutriti del precipitato di Cernobyl. Gli studi dell’Organizzazione Mondiale della Sanità nei vent’anni successivi si accentrarono giustamente sulla zona settentrionale dell’Ucraina, l’epicentro del disastro. Leucemia, disfunzioni tiroidee, tumori vari, deformità neonatali e altre malattie del secolo dell’atomo si riscontrarono in quell’area per lungo tempo dopo la sepoltura del reattore sotto l’ormai celeberrimo sarcofago. Nelle regioni europee più o meno limitrofe, probabilmente le conseguenze andarono a confondersi e a sovrascriversi su quelle di altri disastri ambientali più o meno grandi accaduti successivamente, e sono ormai incalcolabili.
L’Unione Sovietica sopravvisse di poco al suo reattore nucleare. D’altra parte, chi cercò di attribuire la colpa dell’incidente esclusivamente all’inefficienza tipica della vecchia URSS per una volta non ebbe buon gioco. L’ondata emotiva anti-nucleare si diffuse sul continente europeo portando al boom dei Verdi un po’ dovunque, ed all’affermazione dei pronunciamenti contro la costruzione di nuove centrali in alcuni paesi come l’Italia, dove un referendum popolare le proibì definitivamente circa un anno dopo.
Da allora, il dibattito sul nucleare tuttavia non ha mai cessato di essere in corso, anche – se si vuole – con tutta l’irrazionalità diffusa tipica di una discussione che spazia dalla fredda scienza all’emotività del subconscio individuale e collettivo. L’Italia è un paese circondato da centrali nucleari, Francia, Svizzera, Austria e Slovenia hanno reagito più freddamente all’onda lunga di Cernobyl, continuando ad affidare il loro approvvigionamento energetico a questi mostri del ventesimo secolo, magari – si spera – riveduti e corretti nella progettazione.
L’Italia invece è rimasta ferma al referendum del 1987 ed al suo niet stampato nel nostro cuore in quei giorni in cui il reattore 4 di Cernobyl bruciava a cielo aperto. Con tutte le conseguenze d’altro canto negative sulla bolletta dell’ENEL, come lamentano i fautori del nucleare. In paesi come la Finlandia, ormai disseminati di centrali, l’energia elettrica ed il riscaldamento sono praticamente gratis. L’Italia si approvvigiona per gran parte del suo fabbisogno all’estero, ed a caro prezzo.
Il dibattito è continuato e continua. Ma siccome la storia segue percorsi suoi a volte imperscrutabili, quando il pendolo sembrava oscillare di nuovo dalla parte del nucleare anche nel nostro paese, ecco di nuovo i mass media accendere le telecamere sul luogo di una nuova sciagura nucleare. Stavolta non nella vecchia patria del comunismo agonizzante, ma bensì nel superefficiente Giappone, che costruisce le sue centrali – essendo fatto di isole lunghe e strette – in riva al mare o a poca distanza da esso.
Fukushima Dai-ichi
A Fukushima Dai-ichi stavolta è stata la natura a rivoltarsi contro il moderno Prometeo. Lo tsunami dell’11 marzo 2011 ha travolto i primi tre reattori provocando la fusione dei rispettivi noccioli e la dispersione nell’Oceano Pacifico degli isotopi radioattivi. Al pari dell’aria, l’acqua è un conduttore di radioattività micidiale. E di nuovo di radioattività è tornato quindi a nutrirsi l’uomo negli ultimi anni, anche se l’uranio impoverito di tante bombe intelligenti disperse nei mari di vari teatri di guerra avevano già costituito un antipasto consistente.
Anche l’incidente di Fukushima è classificato 7 nella scala INES. Un nuovo potente monito alla razza umana che gioca con la selvaggia potenza degli elementi della natura, senza comprenderne fino in fondo la pericolosità. Sempre affascinata dagli apprendisti stregoni che promettono un futuro da fantascienza e minimizzano i costi, soprattutto umani. A costoro, vale la pena di ricordare il monito dello stesso Enrico Fermi, il padre dell’atomo, ai suoi allievi: “non siate mai i primi, cercate di essere secondi”.
Ma più che tutto vale la pena ed è sufficiente forse ripetere quel nome, da favola terrificante della buonanotte da raccontare a quell’eterno bambino che è rimasto l’uomo, sperando che almeno la paura sia capace di ravvederlo.

Cernobyl.

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