mercoledì 29 aprile 2015

Italicum, le Idi di Marzo di Renzi?

Questo governo è nato per fare le riforme. Se non volete farle, mandatemi a casa”. Rischia di essere questa la frase di Matteo Renzi che dagli atti parlamentari, comunque vada a finire, passerà alla storia. Accertata la permanenza di forti sacche di resistenza all’Italicum dentro la propria maggioranza prima ancora che nelle opposizioni, il premier consegna queste lapidarie parole a Twitter e manda il Ministro per le riforme costituzionali Maria Elena Boschi a Montecitorio ad annunciare la questione di fiducia sugli articoli chiave della riforma del sistema elettorale. Non sulla votazione finale, lo vieterebbe la Costituzione che rimanda la materia elettorale alla procedura normale di esame ed approvazione da parte delle Camere.
Ha un bel darsi da fare la Presidentessa della Camera dei Deputati Laura Boldrini per affermare questo principio, sovrastando il tumulto che si scatena non appena il Ministro Boschi, con un filo di voce, ha dato il fatidico annuncio. La bagarre finisce per investire la Presidentessa più ancora del Governo, malgrado essa si limiti ad affermare una verità di fatto, anzi di diritto. Ormai la Boldrini si è guadagnata ampiamente la palma di prima carica dello Stato per antipatia, e non le viene risparmiato niente nell’emiciclo in preda a tumulti con pochi precedenti. L’epiteto più carino che le viene rivolto dai banchi delle opposizioni è “collusa”, mentre gli oratori da Brunetta a Vendola ai Cinque Stelle pur da diversi punti di vista sono concordi nello stigmatizzare con parole di fuoco la scelta del Governo, definendola in sintesi come il “funerale della  democrazia”.
In serata, il premier Renzi difende la sua scelta, barcamenandosi tra i mass media e l’ormai prediletto Twitter: "Non c'è cosa più democratica di mettere la fiducia: se passa, il governo va avanti altrimenti va a casa. Cosa c'è di più democratico di chi rischia per le proprie idee. E' tempo del coraggio, non di rimanere attaccati alla poltrona".
Qualcosa è cambiato, per dirla in termini cinematografici. In un twit risalente a non molto tempo fa, il Grande Affabulatore scriveva ancora: “Legge elettorale. Le regole si scrivono tutti insieme, se possibile. Farle a colpi di maggioranza è uno stile che abbiamo sempre contestato”. E’ tempo di passare il Rubicone, evidentemente, per un premier che sa benissimo di avere nella propria maggioranza i più acerrimi nemici e di dover forse giocarsi tutto – compresa la possibilità di sbarazzarsene definitivamente – in questa riforma elettorale che gli darebbe un premio di maggioranza che i suoi predecessori, dal 1945 ad oggi, hanno solo potuto sognare.
E’ il tempo del coraggio oppure semplicemente è quello della resa dei conti. Troppe Repubbliche stanno convivendo in queste due aule, tra Palazzo madama e Montecitorio. La Prima, che non vuol morire, la Seconda che vorrebbe tornare in auge, la Terza che balbetta e stenta a compiere i primi passi, rischiando di finire strozzata nella culla.
Ma c’è di più. La materia elettorale è un qualcosa che va ben al di là della Costituzione, sia detto senza alcuna irriverenza. E’ un qualcosa che tocca le corde profonde del comune sentire a proposito della convivenza civile e politica di questa nazione. Che ha a che fare con i nodi più delicati della sua storia contemporanea. Qualcosa che non si può pensare di andare a toccare senza risvegliare passioni e pulsioni profonde che giacevano addormentate nel profondo delle coscienze sia di chi fa politica che di chi si limita a subirla.
Benito Mussolini e Giacomo Acerbo
Con la legge elettorale in Italia si è fatta a volte la storia. E ieri alcuni parlamentari tra le urla ed il lancio di insulti e di oggetti non hanno mancato di ricordarlo. Il 21 giugno 1923 l’ultima Camera dei Deputati dell’Italia liberale, presieduta da Enrico De Nicola, approvò con una maggioranza significativa la cosiddetta legge Acerbo, la riforma del sistema elettorale voluta da Benito Mussolini per assicurare ai suoi Fasci di Combattimento una maggioranza parlamentare che altrimenti in quella fase storica difficilmente avrebbero conseguito.
Dopo la Marcia su Roma, il Fascismo aveva rinfoderato di fatto i propositi di conquista del potere eversivi e aveva scelto la via governativa, parlamentare. Il primo governo Mussolini aveva una maggioranza di coalizione risicata, che beneficiava dell’appoggio condizionato delle varie formazioni liberali e non era più di tanto osteggiata dalle formazioni popolari e socialiste, ancora in stato confusionale dopo essere state colte di sorpresa dall’incarico di governo dato da Vittorio Emanuele III al capo del Fascismo.
Questo stato confusionale non sarebbe durato a lungo, la base del potere fascista era precaria e Mussolini volle rafforzarla per via elettorale. Il deputato Giacomo Acerbo gli confezionò una legge secondo la quale alla lista che otteneva almeno il 25% dei consensi sarebbero andati i 2/3 dei seggi. E così fu. Mussolini ebbe la sua forza parlamentare solo momentaneamente messa in crisi poi dal delitto Matteotti e dalla secessione dell’Aventino. Anzi, fu il parlamento a stragrande maggioranza fascista ad avallare le cosiddette “leggi fascistissime”, i provvedimenti che trasformarono lo Stato Liberale in Regime senza necessità di azioni rivoluzionarie o colpi di stato sostanziali che andassero ad aggiungersi a quello in parte già compiuto dal monarca Vittorio Emanuele.
La storia successiva è nota, ne abbiamo commemorato la conclusione pochi giorni fa con la celebrazione di quella resistenza sanguinosa conclusasi il 25 aprile 1945. L’Italia che aveva ritrovato libertà e democrazia intese dunque vaccinarsi contro il possibile (e come si vide in seguito in varie circostanze) non inverosimile ripetersi di derive autoritarie dotandosi di una Costituzione congegnata in tutti i suoi aspetti per sfavorire l’insorgere di un potere esecutivo forte.
Per questo motivo i Padri Costituenti, pur senza dire in proposito nulla di esplicito, espressero una preferenza per il sistema proporzionale: ad ogni partito tanti seggi per quanti voti otteneva. Con ciò fu mantenuta piena possibilità di espressione e rappresentanza a tutte quelle formazioni politiche che erano riemerse dagli anni bui della dittatura e dall’occupazione militare alleata. Senonché, le buone intenzioni cozzarono subito contro la governabilità. La Democrazia Cristiana irrobustita dalla mobilitazione dei moderati contro il fronte Popolare social comunista (il fatidico 1948, nel segreto dell’urna Dio ti vede, Stalin no) non era comunque un partito che raccoglieva la maggioranza assoluta dei consensi ed era costretta per governare ad affidarsi ad una coalizione comprendente liberali, repubblicani e socialdemocratici.
Il leader carismatico dell’epoca, Alcide De Gasperi, con la sua lungimiranza prefigurava tempi difficili per i governi italiani a venire, una volta che si fossero spente da tutte le parti le passioni animate dalla Lotta di Liberazione. Dette perciò incarico al suo Ministro dell’Interno, Mario Scelba, di elaborare dopo soltanto una legislatura repubblicana una riforma del sistema elettorale.
Scelba legò il suo nome a diversi provvedimenti storici, dalla legge sull’ordine pubblico che vietava tra l’altro la ricostituzione del disciolto Partito Fascista in attuazione delle disposizioni transitorie della Costituzione, alla legge che sempre in attuazione della Carta Fondamentale istituiva e regolava il funzionamento delle Regioni. Ma la legge forse più importante tra quelle da lui propugnate era destinata a passare alla storia non con il suo nome ma con un epiteto infamante: Legge Truffa.
Mario Scelba giura per il sesto governo De Gasperi
 nelle mani del Presidente Einaudi
Il 31 marzo 1953 la legge Scelba fu approvata dal Parlamento malgrado l’opposizione social comunista facesse fuoco e fiamme, lamentando la violazione dello spirito costituente ed il tentativo neanche tanto surrettizio di ritorno a principi e metodi della dittatura da poco terminata. La Legge Truffa prevedeva che si desse alla coalizione che superava il 50% un premio consistente in un ulteriore 15%. Gli italiani risposero no, fermando la maggioranza di governo ad un incredibile 49,8%. Il fascismo era ancora assai vivido nel ricordo di tutti, ed a torto o a ragione più della metà degli aventi diritto al voto in questo paese ritenne che fosse meglio non correre rischi. La legge fu in ogni caso abrogata un anno dopo, precedendo di poco nella tomba il suo ispiratore, Alcide De Gasperi.
Il resto è storia nota e recente, ci volle lo shock di mani Pulite per spingere il popolo italiano ad abbandonare il proporzionale in favore di un sistema maggioritario che finalmente riportasse l’Italia nel campo dei sistemi governati da esecutivi forti. Dapprima il Mattarellum, ispirato dall’attuale Presidente della Repubblica, poi il Porcellum, così chiamato secondo la definizione dello stesso ispiratore il leghista Roberto Calderoli, disattesero significativamente sia il mandato popolare espresso nel referendum del 1993 che l’efficacia e l’effettività di una riforma che rivitalizzasse il sistema democratico rendendolo anche funzionale alle esigenze del paese.
Italicum è l’ultima creatura, con il suo premio che elargisce al vincitore che superi almeno il 40% dei consensi un premio di un ulteriore 15%. E di nuovo le correnti profonde della storia contemporanea italiana scatenano i propri umori avventandosi contro l’incauto premier che risveglia bestie feroci dormienti da tempo. O forse, come dice lo stesso premier affidando i suoi commentari a Twitter, si tratta solo di paura di perdere la poltrona da parte di una vecchia casta sopravvissuta a troppe riforme andate a male?

Ai posteri l’ardua sentenza. A Montecitorio le sentenze cominciano oggi.

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