domenica 17 maggio 2015

La pazienza finita di Firenze

Il bambino che ha in mano lo striscione con su scritto IO CI CREDO sorride, inquadrato e trasmesso alla fine del primo tempo dalle televisioni di tutto il mondo. Sorride felice in mezzo a quella che per lui è una grande festa, la Fiorentina in semifinale di Europa League, qualcosa di cui da grande parlerà ai suoi figli. Sorride perché alla sua età è giusto sorridere, così come è giusto sognare. I sogni rendono favolosa l’infanzia.
Attorno a lui non sorride più nessuno, da almeno mezz’ora. Gli adulti hanno voluto sognare anche loro, credendo possibile un ritorno all’infanzia collettivo. Per quattro giorni a Firenze nessuno ha voluto più ragionare.  Semel in anno licet insanire, diceva il grande filosofo Lucio Anneo Seneca, il fondatore della scuola degli Stoici, i teorizzatori della vita equilibrata, sobria. Perfino lui ammetteva che – appunto – almeno una volta l’anno fosse lecito dare di fuori di matto. A lui si deve in sostanza il Carnevale, altrimenti proibito dalle chiese di tutti i tempi e di tutti i luoghi.
Il tifoso è tifoso perché non ama pensare a nulla, dice il grande filosofo e giornalista sportivo (e non solo) contemporaneo Oliviero Beha. E ama “insanire” ben più di una volta l’anno. Prova ne sia, a Firenze per quattro giorni non si fa altro che ripetere come un mantra SI POLE, CI SI FA, e cose del genere. Quando viene la notte fatidica, quella del dentro o fuori dalla Coppa, quella del biglietto per Varsavia, tutti si avviano allo stadio o alla TV senza concedere nulla al dubbio. Nessuno che si chieda, ma se ho giocato meglio del Siviglia e ne ho presi tre senza rifargliene uno, se ne ho presi due dall’Empoli, uno dal Cesena e tre dal Cagliari, stasera dovrei farne quattro senza subirne? Dal Siviglia?
Alla fine del primo tempo c’è solo quel bambino a sorridere, per lui sarà festa comunque, per tutti gli anni a venire in cui riandrà con la memoria a quella notte in cui il babbo lo portò allo stadio a vedere la Fiorentina giocarsi la Coppa Europa. Il babbo, insieme a tutti gli altri, ha smesso di ridere dal ventesimo del primo tempo, quando Carlos Bacca ha reso ridicola mezza Fiorentina avventandosi su un rimpallo e buttandola alle spalle di un attonito Neto.
This is the end, cantava Jim Morrison con i suoi Doors ai tempi d’oro del rock and roll e anche di una Fiorentina che allora in Europa si faceva rispettare molto di più di adesso. Fine dei giochi, fine della pazienza del Franchi. Pochi minuti dopo il raddoppio di Garriço è come uno schiaffo dato – appunto – ad un bambino che sogna ad occhi aperti: la differenza tra il gioco dei grandi, quelli che vanno a disputarsi la Coppa per il secondo anno consecutivo, e quello dei ragazzini.
Da lì in poi c’è spazio solo per la fiera delle vanità e velleità viola, che mettono in mostra il solito gioco laborioso secondo cui arrivare a segnare un gol è come tentare di risolvere un’equazione di secondo grado a più incognite. Poi per l’ennesimo rigore sbagliato, stavolta da un Ilicic che era appena risorto e che almeno ha il coraggio di andare a metterci la faccia, quando i suoi compagni di faccia non ne hanno ormai più. Ed infine per i fischi e gli sberleffi di un Franchi che aveva sopportato di tutto, perfino di veder l’ennesima passeggiata della Juventus in un’altra serata di quelle che dovevano fare un gran bene ed invece hanno fatto un male cane. E che adesso, di fronte alla fine del sogno più improbabile, scopre di non poterne più.
Quando ci si illude al di là di ogni ragionevolezza, il ritorno con i piedi per terra è assai più doloroso che mai. Ha fatto male la Firenze viola a credere in una remuntada impossibile, smentita dalle statistiche prima ancora che dal cuore. La Fiorentina ha sempre segnato, da quando c’è Montella alla sua guida, con una frequenza inversamente proporzionale alla facilità ed alla supposta bellezza del suo possesso palla. In altre parole, per fare un gol è parso a volte che si dovesse fare un bando europeo. Era vano pensare che le cose cambiassero tutto in una notte.
La Firenze viola delusa sfoga la sua rabbia sui suoi ex eroi, che dimostrano non solo alla prova dei fatti un gioco inferiore a quello del Siviglia (e poco male, ci può stare), ma anche e soprattutto una mancanza di grinta, di quei famosi occhi della tigre più volte invocati e quasi mai riscontrati, che è in fondo il vero motivo della rabbia del Franchi. Che la sfoga – tutto sommato civilmente – in modo molto fiorentino: con una suprema ironia che è peggio di centomila sassate.
Non fa male in questo la Firenze viola delusa, ma fa male piuttosto il suo “capitano del popolo” Montella a dolersene, e pubblicamente. Fa male due volte, la prima a ricordare alla gente qual è la sua presunta dimensione (può anche essere vero, mister, ma tu eri pagato proprio per andare oltre quella dimensione, per rimanerci era sufficiente Delio Rossi) e la seconda a ribellarsi, a lamentarsi di non meritare i fischi. Nossignore, tu hai messo in campo una squadra di “belli senz’anima” e tu ora ti prendi le tue responsabilità, alla testa dei tuoi uomini, in silenzio come si conviene a chi – ribadiamo – è stato pagato più che lautamente anche per quello.
I rumors parlano di un Diego Della Valle molto ma molto incavolato per la serataccia dei suoi stipendiati e per l’ennesimo rimbalzo della società di sua proprietà al momento di mettere le mani su qualcosa che si chiama trofeo. Se così è, vivaddio. Se così è, crediamo che a lui le parole del suo stipendiato Vincenzo Montella siano piaciute ancora meno che al pubblico. E che facendo due più due, il tempo di Vincenzo Montella a Firenze sia ormai agli sgoccioli.
Film già visto, dice qualcuno. Può darsi. Come Prandelli, Montella sbatte contro la politica del “braccino” (vero o presunto) della sua società, ci sguazza dentro fin che può senza sapervisi veramente adattare. La società gli dà solo in parte quello che ha chiesto, lui non sa valorizzarlo fino in fondo e non sa far valere le sue ragioni quando è il momento. Lui va avanti con una lista di giocatori che in fondo tutti sanno quello che possono dare. Non li sconfessa e non li protegge, né ne trae quasi mai fuori il massimo.
Dati alla mano, la difesa da tre anni è un “non reparto”. Tre pezzi buoni, Gonzalo, Savic e da quest’anno anche Basanta, che però non riescono ad essere una somma pari al valore dei singoli. Il centrocampo è un equivoco che si regge da tempo sui polmoni e sulla grinta di David Pizarro. Borja Valero e Matias Fernandez sono due splendidi giocolieri da “scartino”, da partita a “porticine”. A calcio vero basta una ventata che soffia più forte per metterli out. Gli avversari se li bevono con facilità, e in un attimo sono nella nostra area. Aquilani ormai è un mistero neanche tanto buffo. Ad ottobre era il migliore di tutti, poi è sparito nel nulla. Altre società avrebbero magari spiegato perché, nella nostra invece funziona così. Se ti va bene, c’è Badelj o Kurtic, se no arrangiati.
In attacco, finita l’attesa messianica per Rossi ormai imparentato con la Tribuna Autorità, finita anche l’epopea di Mario Gomez sulla pantomima del riscaldamento interrotto nel secondo tempo contro un Siviglia che di prendere un gol da questa Fiorentina non ne voleva sapere assolutamente, cosa resta? Cartavelina Babacar, che più di due partite a fila non le regge fisicamente, Bernardeschi che per ora regge mezza partita ma che in compenso ha capito benissimo come funzionano le cose tra procuratori e direttori sportivi, Ilicic che a forza di fare il falso nueve non sa più nemmeno lui che cos’é. E Mohamed Salah, al quale consigliamo di rivedersi il film della carriera di Cuadrado in viola, per non ritrovarsi tra poco intristito come lui.
Siamo alle porte con i sassi. C’è molto da rifondare in casa viola. In panchina ed in campo. E c’è poco tempo ed ancor meno margine, perché a quest’epoca di solito le squadre di un certo calibro sono già fatte o quasi, e noi invece non sappiamo nemmeno chi sarà il direttore sportivo nella prossima stagione. Caro Della Valle, incavolati quanto vuoi ma non ci venire più a dire che c’è tempo e modo per vincere qualcosa.

Altrimenti quel bambino crescerà, e butterà via lo striscione IO CI CREDO. E alla fine smetterà di sorridere anche lui. La cosa peggiore che ti potrebbe capitare, caro Diego Della Valle. Perché lui a Gualdo Tadino non c’è stato, non avrà paura anche della sua ombra come ce l’hanno tanti noi. Avrà paura soltanto di invecchiare come siamo invecchiati noi. Con zero titoli.

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