giovedì 15 ottobre 2015

La fine del diritto



Il faccione di Maria Elena Boschi, con quell’espressione un po’ da Vispa Teresa, campeggia da ieri sulle prime pagine di tutti i quotidiani. La signora ministro delle riforme coistituzionali è entrata nella storia d’Italia, lasciamo fare per quale porta o finestra, ma c’è entrata. Il Senato, quell’aula sorda e grigia al cui Presidente qualcuna aveva ricordato tempestivamente quando e come era stato eletto a quella carica, ha fatto il suo dovere. La riforma costituzionale Renzi-Boschi-Verdini-Finocchiaro è passata a Palazzo Madama. La Repubblica nata dalla Resistenza e prodotto dell’ingegno dell’Assemblea Costituente del 1946 non esiste più. Dimenticate i nomi di Terracini, Parri, De Gasperi, Togliatti, De Nicola. Da oggi i nomi da mandare a memoria da parte di quei pochi scolari che continuano a togliere il cellophane ai libri di scuola sono quelli elencati più sopra.
Addio al bicameralismo perfetto del 1948, che forse aveva fatto il suo tempo favorendo ormai soprattutto ostruzionismi parlamentari e manovre di sottogoverno. Ma addio anche al sogno di riformare quella che a giudizio pressoché universale è stata una delle migliori carte costituzionali della storia mondiale attraverso un procedimento che almeno nella forma se non nella sostanza rendesse omaggio a quella stessa carta e a chi – in quell’anno e mezzo di lavoro ispirato e di prodigiosa solidarietà tra le pur eterogenee forze politiche rinate durante la sanguinosa lotta al fascismo – l’aveva redatta facendone dono alla neonata Repubblica.
La generazione dei D’Alema aveva illuso con il sogno della Bicamerale, una Fiera delle Vanità che almeno aveva fatto discutere dentro e fuori di essa, coinvolgendo anche quel popolo in nome di cui diceva di operare. Poi era venuto l’oltraggio della Riforma Bassanini - D’Alema del Titolo Quinto, con un potere esteso ad una rappresentanza popolare – quella che si sostanzia nei Consigli regionali – tra le più modeste mai espresse da quando esiste la democrazia assembleare. In queste maggioranze è stata allevata la generazione dei Renzi e delle Boschi, che alla fine aveva in testa una cosa sola, e l’ha ottenuta: perpetuare all’infinito il proprio potere.
Il testo della Renzi - Boschi – viene da sorridere, ce ne rendiamo conto, ma da oggi sarà conosciuta così – prevede una Camera Alta sul modello malamente imitato di quella americana: 74 consiglieri regionali, 21 sindaci, 5 senatori nominati dal capo dello Stato per 7 lunghi anni. Competenze ridotte, a cominciare dalla perdita dell’espressione della fiducia al governo, per un totale di 100 senatori contro i 315 attuali. Peccato che non sarà il singolo elettore a spedire alla lontana capitale il “proprio senatore”, come succede oltre oceano. Saranno i consigli regionali a decidere chi mandare alla nostrana Capitol Hill, e il popolo non avrà altra occasione di metterci bocca se non nel referendum confermativo o meno che andrà in scena – per l’ultima volta, crediamo – nell’autunno del 2016. Sarà presumibilmente il canto del cigno della vecchia costituzione.
E’ il secondo tassello di una architettura costituzionale che il partito democratico sta consapevolmente allestendo da tempo. Il modello è la legge elettorale della Toscana, che ha permesso al governatore uscente Enrico Rossi di riconfermarsi con meno del 25% dei voti degli aventi diritto, in virtù di un premio di maggioranza spropositato, che nemmeno Acerbo e Scelba avrebbero mai sognato di conferire. Il modello è apparso peraltro esportabile sia in Italia che all’estero. L’Italicum, se e quando il presidente del consiglio concederà graziosamente al popolo di tornare a votare, farà di lui un Rossi nazionale, con le stesse percentuali di votanti e di premialità. Nel frattempo non è un caso se della vittoria di Pirro di Alexis Tsipras in Grecia i primi e più convinti a congratularsi siano statti proprio Rossi e  Renzi. Il giocattolo, almeno per loro, funziona.
Queste innovazioni che segneranno la nostra vita politica e civile (e che allestiranno a parere di chi scrive un vero e  proprio regime, senza bisogno almeno in apparenza di nessun connotato di esplicita violenza come in occasioni precedenti) vengono approvate da un parlamento che la Corte Costituzionale ha da tempo dichiarato illegittimo, perché eletto in virtù di una legge – il Porcellum – incompatibile con la Costituzione ancora in vigore per pochi mesi in questo paese. Ma pazienza, Anna Finocchiaro può irridere una volta di più il popolo che almeno formalmente rappresenta invitandolo a “prendersi le sue responsabilità”, mentre va ad abbracciare la ministra Boschi esplicitando un connubio tra i più improbabili e letali della storia d’Italia.
Poi arriva non meno importante l’imprimatur di Giorgio Napolitano, presidente emerito e senatore a vita. Uno che sa bene che direzione ha preso la storia del nostro paese, perché era presente all’imbocco di questo binario e ne ha azionato lo scambio decisivo. Non è un caso che all’annunciarsi del suo discorso escano dall’aula non solo i Cinque Stelle ma anche la pattuglia residua di Forza Italia, guidata dal loro disgustato e stanco ma ancora non domo condottiero, Silvio Berlusconi. Il botta e risposta tra l’ex presidente della repubblica e l’ex presidente del consiglio dice tutto, ed anche qualcosa di più.
“Entriamo nel campo della psicologia – attacca Napolitano -. E io non voglio fare commenti politici, figuriamoci quelli psicologici. Ho letto attribuite a Berlusconi parole ignobili, che dovrebbero indurmi a querelarlo, se non volessi evitare di affidare alla magistratura giudizi storico-politici; se non mi trattenesse dal farlo un sentimento di pietà verso una persona vittima ormai delle proprie patologiche ossessioni”.
Non si fa attendere la risposta di Berlusconi. Dopo aver invitato tutti a leggere il capitolo del libro di Friedman sul “golpe del 2011” ed aver citato l’inchiesta di Trani sulle agenzie di rating che a suo dire confermerebbero la regia dell’ex presidente e appunto lo stesso golpe, affonda: “Io sono stato condannato a tre anni per molto meno. A chi si è macchiato di golpe vogliamo dare meno di quattro anni? Si, è il minimo protestare quando prende la parola Napolitano”.
Questa è la colonna sonora ufficiale della riforma della nostra Costituzione. Mentre a Palazzo Madama Napolitano conclude il suo discorso e va a congratularsi anch’egli con la Boschi, a Montecitorio si salda intanto l’ultimo tassello della riforma istituzionale a cura del partito democratico.
Lo ius sanguinis è uno dei fondamenti del nostro ordinamento giuridico fin da quando l’evolversi di un diritto romano fece della nostra penisola la “patria del diritto”. La Repubblica e l’Impero romani conferivano la cittadinanza, con tutti gli onori ed oneri che ne derivavano, a chi nasceva da genitori romani. Sulla base del sangue. E’ vero che nel Basso Impero per finanziare la propria economia e la stabilità sociale era invalso l’uso di vendere la cittadinanza ai cosiddetti barbari, e che il Bassissimo Impero aveva trasformato quest’uso in un abuso. Ma il principio era rimasto invariato, dai tempi di Giustiniano fino a ieri mattina, quando la Camera dei Deputati ha dato l’ultimo colpo alla società civile così come l’abbiamo finora conosciuta approvando il disegno di legge che introduce in Italia lo ius soli.
Il diritto anglosassone conferisce la cittadinanza sulla base del “dove” e non sul “da chi”. Conta nascere sul territorio, non importa da quali genitori. E’ una nozione al di fuori della nostra cultura, e per di più pericolosissima in una realtà come la nostra che subisce l’aggressione quotidiana fisica e massiccia da parte di torme di migranti travestiti da profughi, di fronte alla quale le istituzioni stanno mostrando la loro impotenza o peggio la loro connivenza. Matteo Renzi canta vittoria su Twitter: “Si può essere o meno d'accordo su ciò che stiamo facendo, ma lo stiamo facendo: la lunga stagione della politica inconcludente è terminata. Le riforme si fanno, l'Italia cambia. Avanti tutta, più decisi che mai”.
Chi tra i suoi cittadini ha minori interessi personali ma sicuramente più cultura o forse anche soltanto educazione civica preferisce mettersi le mani nei capelli, e non su un social network ma nella realtà. Conoscendo il pollaio italiano, per avere la cittadinanza di questo paese (e quindi anche della Comunità Europea) basterà che le madri vengano a partorire i loro figli sul nostro suolo. Cosa ne conseguirà poi è facile immaginare. Ricongiungimenti familiari allargati obbligatori. Voti al partito democratico altrettanto obbligatori.
Le temperie introdotte allo ius soli dalla legge approvata, il possesso cioè da parte di uno dei genitori del permesso di soggiorno UE di lungo periodo ed il cosiddetto ius culturae (l’aver frequentato un ciclo scolastico di almeno cinque anni nel nostro sistema di pubblica istruzione) si riveleranno inefficaci per quanto appaiono al presente ridicoli. E’ una legge ad hoc, per regolarizzare ed avviare alle urne elettorali la gran massa di persone che da Lampedusa transiteranno sul nostro territorio per restarvi. Ironia della sorte, o della legge, nessun cittadino europeo potrà diventare cittadino italiano. I nostri partners non hanno bisogno del permesso di soggiorno in Italia, quindi per loro restano paradossalmente i canali tradizionali.
Abbiamo aperto con la ministra Maria Elena Boschi. Chiudiamo con un'altra signora il cui nome resterà sicuramente negli annali di storia italiana. E che commenta euforica l’esito della votazione avvenuta nella Camera che presiede. “Montecitorio fa cadere la barriera che per troppo tempo ha tenuto separati tanti giovani e giovanissimi nuovi italiani dai loro compagni di scuola e di gioco”. Firmato Laura Boldrini.
I bambini ci guardano, insomma. Chissà se capiscono, o capiranno mai anche da grandi, che cosa abbiamo fatto.

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