domenica 10 gennaio 2016

DIARIO VIOLA: I nodi al pettine

D’ora in avanti, quando usciranno i calendari della serie A ad agosto la prima cosa che i tifosi della Lazio faranno sarà quella di andare a vedere quando si gioca Fiorentina – Lazio. La gita più bella, rilassante e divertente che il supporter laziale possa fare, almeno in Italia, è e resta quella a Firenze. Se i numeri dicono qualcosa, cinque vittorie in sei anni dei biancocelesti al Franchi parlano un linguaggio chiarissimo.
Se fossimo imprenditori del settore del calzaturificio, e per cinque volte su sei uscisse dalla nostra linea di produzione la stessa tomaia con lo stesso difetto, probabilmente qualche domanda ce la faremmo. E qualche decisione la prenderemmo, sempre se vogliamo restare concorrenziali.
Quando segna Keita al 45’ del primo tempo dopo che la sua squadra ha mancato almeno altre tre ghiotte occasioni per passare in vantaggio, la sensazione è di rivedere per la quinta volta lo stesso film. E finché lo rivediamo noi che siamo “tifosi” (cioè afflitti da una ben nota patologia, quella viola) o a seconda delle interpretazioni “clienti” (cioè gente che ormai ha comprato, e non può più esercitare il diritto di recesso) pazienza. Ma quei due signori presenti ieri in Tribuna Autorità che fino a prova contraria ci mettono fior di soldi per rivedere lo stesso film tutti gli anni forse a questo punto potrebbero fare anche valutazioni diverse.
La Lazio che ha preso l’abitudine di queste passeggiate fiorentine, si badi bene, non è certo quella di Chinaglia, Re Cecconi, Wilson e compagnia bella. E nemmeno quella di Salas, Mihajlovic, Mancini & C. E’ una discreta squadra, che l’anno scorso riusciva ad essere qualcosa di più e che quest’anno fino alla diciottesima giornata aveva destato più che altro perplessità. Ma alla diciannovesima si gioca appunto Fiorentina – Lazio, e allora ecco che l’aquila torna a volare. Come sempre.
Passano gli anni, passano gli allenatori sulla panchina viola. Mihajlovic, Delio Rossi, Montella, ora Sousa. Filosofie diverse, stesso pastrocchio. La Fiorentina macina gioco orizzontale, nella circostanza anche particolarmente farraginoso. La Lazio aspetta, e poi colpisce. Gli uomini per andare via in velocità in questi anni ce li ha avuti sempre. Lotito evidentemente i suoi problemi di tetto – ingaggi li ha saputi risolvere. Prendendo a base Candreva, o Felipe Anderson, o Keita, o Klose o Cana affondano nella ipotetica difesa viola come e quando vogliono.
Quest’anno, l’ago della bilancia sembrava pendere decisamente dalla parte toscana. La Lazio non ha più fame, si lamentavano a Roma. La Fiorentina vola nella zona scudetto, gongolavano a Firenze. Non ci doveva essere partita. Ma il buon Pioli in settimana presentando la partita dei suoi si era detto di essere sicuro di venire a vincere in casa degli osannati gigliati. E il perché lo sapeva lui, che da bravo allenatore studia gli avversari. La Fiorentina del 3-5-2 è una vittima sacrificale prediletta per quelle squadre che si presentano come una testuggine compatta pronta a colpire con la velocità letale del cobra. Come la Roma un paio di mesi fa, come la Lazio adesso.
Come contro la Roma, due terzi del tempo trascorrono con lo sterile possesso palla viola. Peggio che contro la Roma, il primo tiro nello specchio della porta della Lazio scoccato dalla Fiorentina accade al 75’. Autore quel Giuseppe Rossi che non avrebbe dovuto più nemmeno esserci, se le sirene di mercato avessero cantato la melodia giusta.
Da parte viola, il bravo allenatore Paulo Sousa, al contrario del suo collega biancoceleste, oggi sbaglia lo sbagliabile. Lascia fuori Ilicic con l’intenzione di risparmiarlo per Milano. La mossa, contestuale al mancato utilizzo per squalifica di Bernardeschi, si rivela ovviamente funesta. Nella morsa del centrocampo laziale, tosto, compatto, veloce e tecnico, quello viola va sott’acqua. Sulle fasce si notano un Alonso costretto più a difendere che a spingere ed un Blaszczykowski  che brilla soprattutto per la sua assenza, tanto da costringere il mister a toglierlo per coprire almeno la buca creatasi a destra.
Il solo Borja Valero appare insufficiente a portare azioni offensive verso la porta difesa da Berisha. Le velleità viola si arrestano regolarmente sulla tre quarti della Lazio, che una volta ripreso il pallone fa paura con le sue ripartenze, soprattutto dalla mezz’ora del primo tempo in poi. Mati Fernandez è impalpabile, malgrado il fresco rinnovo del contratto. Badelj e Vecino sono costretti più all’interdizione che alla riproposizione. La squadra non ha soluzioni offensive, ed è un male non da poco, visto che gioca in casa una partita decisiva per le proprie ambizioni ormai dichiarate.
In difesa, Roncaglia non tiene Keita, Astori e Gonzalo non riescono a tappare tutti i buchi. Nell’ultimo quarto d’ora del primo tempo la Lazio potrebbe passare almeno tre volte. In particolare si mette in luce una vecchia (si fa per dire) conoscenza nostrana, quel Milinkovic Savic che è stato in estate coprotagonista (insieme agli uomini mercato viola) di una delle più clamorose farse della storia del calcio italiano. Il ragazzo non sarà un granché in quanto a statura morale (ma chi lo è nel calcio di oggi?), ma a calcio sa giocare. Lo dimostra sfiorando il gol del vantaggio poco prima di quello di Keita. E lo conferma segnando un irrisorio 2-0 dopo una ripresa interamente trascorsa dai suoi a reggere il confusionario arrembaggio di una Fiorentina che non vuole rinunciare ai suoi sogni.
Il gesto con cui poi il Milinkovic indica alla panchina viola lo stemma sulla sua maglia biancoceleste è in effetti di cattivo gusto, un vero e proprio schiaffo in faccia all’A.C.F. che gli aveva pagato il biglietto aereo dal Belgio all’Italia, prima del proseguimento per Formello. Ma è difficile non ammettere che in qualche modo non sia meritato. In ogni caso, a quel punto la Fiorentina si è affondata da sola. Soltanto quel Rossi dato ormai per ex giocatore ha cercato di tenerla in vita, mentre Kalinic intristisce in campo completamente isolato e Babacar fa lo stesso in panchina.
Paulo Sousa, non contento di aver sbagliato formazione iniziale, fa lo stesso con i cambi. Alonso finisce a giocare a destra. O si tratta di stato confusionale, o di polemica verso la società. Come dire, la famosa omelette. E il bello è che Alonso a destra ed il subentrante Pasqual a sinistra non sono nemmeno dei peggio nella ripresa. Anche se tocca a Roncaglia segnare un inutile gol della bandiera, vanificato poco dopo da Felipe Anderson subentrato a Keita.
Finisce con la sensazione che la Fiorentina abbia finalmente incontrato il proprio limite, dopo mesi trascorsi ad andare a 100 all’ora, per dirla con Gianni Morandi. D’altra parte, se a torto o a ragione si ritiene di avere soltanto 12-13 giocatori all’altezza e il resto sono doppioni da scambiare, essere stati in testa per quattro mesi rappresenta un mezzo miracolo. Con 38 punti in altre stagioni si era largamente campioni d’inverno.
Finisce anche con la sensazione che “nel manico” ci sia qualcosa che non va. Quando Vincenzo Montella invitò il pubblico di Firenze ad accettare il fatto che “siamo questi” (dopo una semifinale di Europa League) mezza città quasi insorse. Adesso che Paulo Sousa gioca senza riserve perché non ritiene di averne all’altezza (e soprattutto non ha schemi alternativi all’altezza, questo va detto) le reazioni sono molto più tendenti alla comprensione. Anche questa è Firenze.
Per quanto riguarda quei due signori in Tribuna Autorità che ci mettono i soldi, difficile stabilire se sia giusto criticarli o applaudirli comunque. L’equilibrio è sempre d’obbligo, nella vita e nello sport. Siamo pur sempre a ridosso della vetta pur dopo l’ennesima prestazione disarmante in fotocopia contro la “nemesi” Lazio. Ma una cosa va detta: non è quel gruppo di tifosi che accenna ad una peraltro garbata contestazione a rendersi responsabile di una caduta di stile, ma piuttosto il patron che la stigmatizza ai microfoni della televisione. Perché conferma tra l’altro che la famiglia di Casette d’Ete ha grossi problemi di comunicazione con l’esterno, se addirittura si nasconde dietro ad un episodio così marginale per non dover parlare delle proprie responsabilità.
Il cliente, caro Andrea Della Valle, ha sempre ragione. Vediamo di ricordarsene anche quando non fa comodo.


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