domenica 3 gennaio 2016

La memoria del mondo

Sono stati due anni pieni di anniversari. Il 14 e il 15 di ogni secolo dell’era moderna in genere o sono quelli che concludono un lungo periodo di guerre, o sono quelli che gli danno il via. Nel Novecento il 1914 prese di sorpresa l’Europa della Belle Epoque, del Positivismo, del più lungo periodo di pace mai vissuto dal Vecchio Continente dopo che l’Impero di Bismarck aveva travolto a Sedan quello di Napoleone III. A Sarajevo bastarono alcuni spari diretti contro l’erede al trono degli Asburgo d’Austria-Ungheria perché un mondo che si riteneva ormai civile e prospero senza possibilità di ritorno all’indietro precipitasse nel volger di pochi giorni in un nuovo abisso di barbarie.
Kaiser Wilhelm II
Gli Stati entrarono nella Grande Guerra o con riluttanza o con la convinzione che si trattasse ancora di una di quelle guerre ottocentesche che si risolvevano in qualche battaglia campale e quasi mai coinvolgendo le popolazioni civili oltre agli eserciti. Un tragico errore portò ad una inutile strage, come l’avrebbe definita qualche anno e molti milioni di morti più tardi il Papa Benedetto XV. La stessa tecnologia che aveva reso incomparabilmente più agevole la vita degli europei a partire dalla seconda metà del secolo precedente si scoprì che rendeva molto più facile e molto più atroce (in scala e metodo) anche la morte.
Alla fine del primo anno di guerra, Ypres era già diventata sinonimo di orrore. La guerra di trincea aveva dissolto ogni illusione di blitzkrieg antica o moderna. I semi di atrocità ancora peggiori stavano entrando in circolo nel sangue degli europei e degli abitanti dei loro dominions coloniali. E tuttavia ancora un briciolo di umanità quasi favolistica consentì ai “nemici” delle trincee anglo-francesi e prussiane di festeggiare il primo Natale di guerra in modo insolito. La più clamorosa tregua bellica nella storia dell’uomo, dai tempi in cui ad Olimpia si comprese che era forse più redditizio affrontarsi in uno stadio sportivo che sui campi di battaglia.
Il 1915 fu l’anno dell’Italia, sempre buona ultima ad allinearsi alle tendenze positive o negative che le arrivano da oltre confine. Un secolo prima, il Congresso di Vienna aveva ribadito che la penisola era poco più che una espressione geografica. Un secolo dopo, la giovane nazione italiana dimostrò che la sua fame di guerra andava ben al di là della necessità di riunire alla patria le zone irredente dal lungo e sanguinoso Risorgimento, da Trento all’Istria.
Con l’Italia in campo, la Grande Guerra diventò totalmente europea. E il più aveva ancora da venire. Anche il 16, il 17 e il 18 sono e saranno anni di anniversari significativi. Il mondo in quei tre anni cambiò per sempre. Lo aveva già fatto. Lo avrebbe fatto ancora. E la gente che lo abita avrebbe continuato imperterrita a guardarsi bene dall’imparare qualcosa dal passato, remoto o recente.
Ciò che fa della storia quel ciclo di corsi e ricorsi di cui parlava Giovan Battista Vico e da cui nessuno vuole mai apprendere è proprio il dilemma a cui si trova ogni generazione umana: imparare dagli errori di genitori e nonni, o commetterne di propri?
Adolf Hitler
Cento anni dall’inizio della Prima, settanta dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. 44 e 45 furono anni ancor più terribili. Il mondo sembrò sull’orlo d una fine orrenda, piuttosto che di un nuovo cambiamento. Gli stati totalitari nati dal crollo degli Imperi e dalle questioni lasciate irrisolte da quegli Imperi e da chi li aveva abbattuti non si accontentavano di conquiste economiche e territoriali. Volevano forgiare l’uomo nuovo, o vederne in caso contrario la fine. L’unico limite era quello posto dalla follia dei dittatori andati al potere con il consenso di masse meno civilizzate di quanto l’apparenza facesse supporre.
Nei trent’anni tra l’inizio e la fine delle due guerre mondiali, l’uomo sembrò tuttavia acquisire un anticorpo nel proprio DNA. Un vaccino che impose alla Guerra Fredda scoppiata nel 1947 di mantenersi entro limiti che sembravano retaggio del passato. Le crisi tra le due superpotenze non arrivarono mai - o quasi - allo sparo di un solo colpo. Perché, come disse efficacemente Einstein, sarebbe stato l’ultimo colpo sparato dall’uomo. Ed Einstein lo sapeva bene, perché era stato uno di coloro che aveva messo in mano all’uomo la sua arma finale,  definitivamente distruttiva: quella atomica.
La bomba atomica c’è ancora, settant’anni dopo. Eppure il 14 e il 15 del ventunesimo secolo vedono soffiare di nuovo venti di guerra impetuosi. Vedono il terreno di nuovo fertile per totalitarismi e fondamentalismi. L’equilibrio del terrore quindi non era dato dalla disponibilità di armi devastanti, ma piuttosto dalla consapevolezza – acquisita sulla propria pelle – di cosa può fare l’uomo armato contro l’altro uomo, sia quell’arma un missile o una semplice clava. Quelle generazioni avevano già dato, non volevano dare più. Le nuove, come la mia, erano nate nel benessere. In una nuova Belle Epoque ancora più illusoria della precedente.  Impregnata della fallace sensazione che certi errori e certi orrori non li avremmo visti accadere più.
Urbano II bandisce la Prima Crociata a Clermont Ferrand
L’anno che si è appena concluso era il 920° da quello in cui fu bandita la Prima Crociata. E ancora si parla di crociate, da una parte e dall’altra. E il giorno dell’Ottava si avvicina. L’anno che si è appena concluso è stato inoltre quello del 90° anniversario del primo regime rubricato come “fascista” che si affermò ufficialmente sul continente europeo. Un primato che tocca all’Italia, ognuno giudichi se vale la pena celebrarlo o meno. Il Continente era stanco di democrazia, un sistema peraltro pessimo ma senza alternative, secondo la celebre definizione di Winston Churchill.
L’anno che si è appena concluso era portatore di un altro anniversario importante. Il 15 giugno 1215 a Runnymede lungo il Tamigi nella Contea di Surrey i baroni inglesi imposero al Re Giovanni Senza Terra (il fratello di Riccardo Cuor di leone reso celebre dalle avventure di Robin Hood) la firma di un documento come tanti che se ne firmavano nel Medioevo. A volte erano poco più di statuti che concedevano grandi o piccole libertà a grandi o piccoli borghi del regno. A volte erano qualcosa di più.
Magna Charta Libertarum
Si chiamava Magna Charta il documento la cui firma fu strappata dai Lords al meschino fratello del Cuor di Leone. Ad essa si fa risalire nientemeno che la nascita della democrazia parlamentare. Il fondamento di tutte le nostre libertà. Il principio del “niente tasse senza rappresentanza” fa da sempre la differenza tra noi e i paesi che vivono sotto regimi illiberali. Solo che noi non ce lo ricordiamo più. E’ stato infatti uno degli anniversari passati sotto il silenzio più assordante possibile. In Italia poi, forse all’attuale governo e ai poteri che lo sostengono interessa più la ricorrenza della Camera dei Fasci e delle Corporazioni. Per la quale ci sarebbe da aspettare qualche altro anno. Meglio muoversi in anticipo, avranno pensato gli squadristi renziani.
Il nuovo Asse Roma-Berlino
Sono arrivato ad una fase della vita in cui si comincia ad apprezzare la meditazione ed il silenzio, magari favoriti e accompagnati dal vento che soffia sulle cime disabitate (o quasi) di molte nostre montagne. I discorsi e le celebrazioni non fanno più per me. Scrivere poi pensando di lasciarsi dietro qualcosa che insegni qualcos’altro a qualcuno è diventato sintomo di una presunzione sempre meno sensata. Che ogni generazione faccia i propri errori e vi rimedi, se sopravvive abbastanza per farlo. Se scrivo ancora, lo faccio soltanto per me, per i miei ricordi, per le mie emozioni.
Soffiano venti di guerra impetuosi. E allora meglio ritirarsi quassù ad ascoltare il vento che soffia su queste cime dove settant’anni fa tuonava il cannone e scorreva il sangue. Meglio fermarsi a riflettere sul significato di queste croci e queste lapidi bianche, che riportano date di nascita e di morte non più distanti di diciott’anni l’una dall’altra, nomi di ragazzi tedeschi immolati alla più infame delle cause. Soldati di un esercito maledetto fino alla fine del tempo.
Deutscher Soldatenfriedhof von Futa Pass. Soltanto qui ce ne sono sepolti oltre trentamila. E’ il più grande cimitero di guerra germanico in Italia, rimasto a testimoniare quei due anni di immane follia in cui questi ragazzi seminarono orrore e morte come già avevano fatto nel resto d’Europa. Non è un caso che qui ce ne siano sepolti così tanti. Questo era il fulcro della Linea Gotica. A sfondare questo fronte gli alleati ci misero oltre otto mesi. SS e Wehrmacht stabilirono qui la loro ultima disperata resistenza prima della rotta finale. L’ordine di Hitler era quello di morire piuttosto che arrendersi. Tutti, fino all’ultimo uomo. E così fu fatto. Ein Volk, ein Reich, ein Fuhrer.
Deutscher Soldatenfriedhof von Futa Pass
Il colpo d’occhio è quello di tutti i cimiteri di guerra. Eppure non riesco a provare la stessa commozione che mi danno i cimiteri americani. Quello di Falciani alle porte di Firenze, quello del Giogo – qui vicino – dove sono sepolte le vittime di questi qui, dei ragazzi nazisti. Quelli della Normandia. Quelle croci bianche dopo tanto tempo mi stringono il cuore allo stesso modo. So bene che sono nato in un mondo accogliente e confortante soltanto grazie ai ragazzi sepolti sotto a quelle croci.
Questi, mi dispiace, ma non sono la stessa cosa. Erano imbottiti di metanfetamina e dell’ideologia più aberrante dell’intera storia dell’umanità. O forse di quella che riassumeva e sintetizzava tutte le aberrazioni della storia umana. Furono capaci di qualunque cosa, i Karl, i Gustav, gli Johannes, i Fritz che adesso giacciono sotto queste croci. E grazie ai quali questo lembo di terra è diventato territorio della Repubblica Federale di Germania. Non della Repubblica Italiana. Alla fine, la Germania qualche conquista territoriale l’ha ottenuta con la Seconda Guerra Mondiale. E non è i suoi figli attuali la gestiscano con molta maggiore simpatia rispetto ai suoi antenati di settant’anni fa, almeno a giudicare da come ti accolgono quando arrivi in visita.
Questo è quello che penso. Avere simpatia per i tedeschi è concettualmente impossibile, disse una volta mio padre. Che se li ricordava con l’elmetto nazista in testa. E io bambino – come lo era stato lui a tempo in cui quei ricordi si erano stampati indelebilmente nella sua mente – ascoltavo quei racconti destinati a segnare indelebilmente anche me.
Non ho simpatia per queste croci, questi nomi, queste date. Per quella bandiera tedesca che sventola sul mausoleo qui nel centro della mia terra. Non ho simpatia né commozione per questi trentamila. Non l’avrò mai. Fosse vissuto uno solo di loro, né io né i miei cari adesso saremmo qui. Non ho simpatia per quelli che vengono qui a radere l’erba e a mantenere strutture e fioriere. Li ho visti all’opera anch’io, e non solo qui. Sono pronti a rimettersi l’elmetto in testa e a fare di questo continente di nuovo un luogo di sofferenza. Forse lo stanno già facendo.
Non ho simpatia per ragazzi che avevano si e no diciott’anni quando la loro vita fu stroncata. E’ brutto, lo so, ma è così. Però posso avere almeno rispetto. La morte alla fine lo merita sempre. La morte ed il pensiero che prima o poi altri ragazzi come questi saranno mandati a morire altrettanto stupidamente.

E ci saranno altri anniversari. E altrettanta gente che li ignorerà.

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