mercoledì 16 marzo 2016

Via Fani



Ricordo che ero a scuola quando arrivò la notizia. Un commando delle Brigate Rosse ha rapito il presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro. Una bomba, più devastante ed assordante di quelle che all’epoca scoppiavano qua e là per l’Italia, campo di battaglia della Strategia della Tensione, degli Opposti Estremismi e di chissà quanti altri episodi di quella Guerra Fredda quasi calda che si combatteva nelle nostre città, nelle nostre vite.
A scuola, non passava quasi giorno senza che nessuno telefonasse per annunciare la presenza di qualche fantomatica bomba, con la conseguenza magari di provocare l’uscita anticipata di studenti e personale scolastico, quando la minaccia sembrava più verosimile. A volte era addirittura qualcuno di noi che telefonava, in concomitanza di qualche compito o interrogazione scottante, per provocarne il rinvio.
Quel giorno, la bomba scoppiò davvero. Peggio di una atomica, avrebbe cambiato il nostro mondo e la nostra storia per sempre. Niente sarebbe stato più come prima, per noi ragazzi, per gli adulti, per l’Italia che ci sembrava andare in pezzi un po’ alla volta ogni giorno, e che quel giorno sembrò arrivare davvero sull’orlo del baratro.
Era il 16 marzo 1978. Quando la notizia ci raggiunse, all’ora di ricreazione, il fatto era già successo da qualche decina di minuti. A Roma, in Via Fani, lungo il tragitto che percorreva per raggiungere Montecitorio dalla propria abitazione nel quartiere Trionfale in zona Monte Mario, Aldo Moro, presidente del partito di maggioranza relativa che governava l’Italia da 34 anni ininterrottamente – la Democrazia Cristiana –, mentre si recava a presenziare al voto di fiducia della Camera dei Deputati a quello che avrebbe dovuto essere il 34° governo della Repubblica Italiana dalla sua proclamazione, era stato aggredito da un commando BR composto da personaggi i cui nomi erano destinati a diventare tristemente famosi presso l’opinione pubblica italiana: Valerio Morucci detto Matteo, Franco Bonisoli detto Luigi, Prospero Gallinari detto Giuseppe, Raffaele Fiore detto Marcello, Barbara Balzerani detta Sara. A Via Gradoli, in uno dei covi che le indagini successive avrebbero sfiorato ma incredibilmente mai scoperto, erano rimasti i cervelli Mario Moretti detto Maurizio, Adriana Faranda detta Alessandra. All’incrocio della fatidica Via Fani con Via Stresa era scattata la trappola, con le auto dei brigatisti che avevano bloccato quelle su cui viaggiavano Moro e la sua scorta.
Il corpo dell'agente Giulio Rivera riverso nella 128 dopo la strage
In pochi secondi, il maresciallo Oreste Leonardi e gli agenti Domenico Ricci, Raffaele Iozzino, Giulio Rivera e Francesco Zizzi furono sterminati con freddezza ed efficienza. Aldo Moro fu sequestrato e condotto da Mario Moretti nel covo – prigione di Via Montalcini, dove sarebbe rimasto segregato per i successivi 55 giorni, prigioniero del cosiddetto Tribunale del Popolo.
Ci sono fotogrammi stampati a fuoco nella memoria collettiva di una intera generazione. Bruno Vespa che con voce stravolta commenta assieme al povero Paolo Frajese la carneficina di Via Fani. Papa Paolo VI che rivolge il suo disperato appello in favore dell’illustre prigioniero agli Uomini delle Brigate Rosse. La stella a cinque punte che campeggia su ciascuno dei comunicati stampa consegnati dai terroristi agli organi di informazione. La foto di un Aldo Moro dall’aspetto sempre più smunto e provato, spedita agli stessi organi di informazione dalla prigione del popolo attraverso chissà quale canale.
I brigatisti si sentivano i nuovi partigiani, come testimoniava il loro tragico vezzo di scegliersi un nome di battaglia allo stesso modo dei combattenti della Guerra Civile del 43-45. La loro lotta contro lo Stato Imperialista delle Multinazionali era rimasta fino a quel momento – per quante vittime poteva aver già fatto – quasi sotto traccia. Uno dei fenomeni degenerativi di una società che dopo gli anni del boom economico era entrata in crisi. Di crescita e di consapevolezza di sé.
A metà degli anni settanta era chiaro che il vecchio Centrosinistra non bastava più ad assicurare progresso e stabilità ad un paese i cui squilibri interni tornavano ad essere penalizzanti, strutturalmente più forti di qualunque beneficio la congiuntura economica potesse fornire. Aldo Moro era uno dei due cavalli di razza della Democrazia Cristiana, secondo la celebre definizione di Indro Montanelli, che avevano guidato il partito ed il paese dopo la scomparsa di De Gasperi e la fine della ricostruzione post-bellica e l’inizio del boom.

Diversamente dall’altro, Amintore Fanfani, precocemente invecchiato ed estromesso dalla leadership politica dalla battaglia per il divorzio che aveva avversato, Moro aveva ancora un ruolo da giocare nell’attualità. La sua idea delle convergenze parallele (artificio non troppo retorico e paradosso politico che aveva simboleggiato l’avvicinamento della sinistra fino allora considerata eversiva, quella comunista, all’area di governo, pur con la cautela necessaria a non scontentare l’alleato americano) stava rapidamente evolvendo nel cosiddetto Compromesso Storico.
Il segretario del Partito Comunista Italiano di allora, Enrico Berlinguer, malgrado il suo partito stesse registrando un avanzamento storico e trionfale (culminato nel 34% alle politiche del 76. a pochi punti di distacco dalla DC), aveva maturato la convinzione che in Italia non bastasse il 51% per governare, almeno finché durava la Guerra Fredda (quell’ombrello atomico della NATO che era oggetto di amore-odio per i comunisti di allora) e la conventio ad excludendum nei confronti del P.C.I. dalla possibilità reale di governare. La tragica vicenda cilena con il rovesciamento sanguinoso di Salvador Allende e del governo di Unidad Popular stava lì a dimostrarlo.
Enrico Berlinguer e Aldo Moro
Quando Moro se ne uscì con la proposta di un appoggio esterno comunista (preludio ad una successiva partecipazione alla compagine ministeriale) al quarto governo Andreotti da costituire di lì a poco, Berlinguer non se lo fece ripetere due volte. L’abbraccio con la DC era l’unica via per il potere, e l’unica via d’uscita dalla situazione di impasse del paese. Almeno così sembravano credere tutti in quel momento.
Quella mattina di marzo del 78 Moro uscì di casa per andare a votare la fiducia alla sua ultima creazione, destinata nella sua intenzione a ripetere il geniale successo del centrosinistra di quindici anni prima che aveva visto l’entrata del P.S.I. di Nenni al governo del paese. Ma era scritto nella logica della storia prima ancora che nel destino che non dovesse mai arrivare a Montecitorio, né fare ritorno all’appartamento che condivideva con la moglie Eleonora.
All’angolo tra Via Fani e Via Stresa c’erano forze potenti, nemici implacabili ad aspettarlo. A parte i brigatisti, che le quattro edizioni dei processi celebrati in seguito avrebbero praticamente dimostrato tra l’altro essere infiltrati da servizi italiani e di altre nazioni, c’erano sullo sfondo prima di tutto due superpotenze per nulla soddisfatte della piega che gli avvenimenti italiani stavano prendendo (gli USA perché non c’era barba di santo che si convincessero a fidarsi a lasciar entrare un partito comunista – per quanto facesse professione di conversione alla socialdemocrazia come quello di Berlinguer – in una qualunque stanza dei bottoni dell’area NATO, l’URSS perché vi leggeva – e non a torto – una fuga senza ritorno del P.C.I. dal controllo di Mosca). E come se non bastasse c’era un quadro politico italiano parimenti scontento del meccanismo di evoluzione che si era messo in moto tra Piazza del Gesù, storica sede DC, e Via delle Botteghe Oscure, altrettanto storica sede comunista. L’abbraccio con i comunisti veniva visto obtorto collo da più esponenti politici di quanto non sembrasse all’apparenza.
Ad armare la mano di Moretti & C. furono probabilmente in tanti, assai più di quanto la storiografia ufficiale ci ha consentito finora di comprendere. Lo statista pugliese (era di Maglie, nel Salento, era nato il 23 settembre 1916), era destinato a chiudere i suoi giorni nella prigione del popolo di Via Montalcini. Ed il suo progetto politico a morire con lui.
I sei morti di Via Fani
Fu subito chiaro non appena alla feroce determinazione dei brigatisti assassini l’establishment politico scelse di contrapporre una inusuale – per il costume italiano – linea della fermezza. Dei politici – e delle forze politiche – di spicco, il solo Bettino Craxi neosegretario del P.S.I. si dichiarò disposto alla trattativa, per salvare la vita di Aldo Moro. Gli altri, a cominciare dai suoi compagni di partito e di una vita intera (in primis quel Giulio Andreotti che una Camera dei Deputati sconvolta aveva eletto a spron battuto di nuovo capo del governo lo stesso 16 marzo, e quell’Enrico Berlinguer che figurava come principale beneficiario dell’azione politica dello stesso Moro), furono tutti per un no che significava una condanna a morte.
Che fu eseguita al momento di caricare Aldo Moro sulla celebre Renault 4 rossa poi abbandonata in Via Caetani, a metà strada tra le due sopra citate sedi storiche dei partiti che stavano celebrando il loro Storico Compromesso. Ultimo schiaffo in faccia ad uno Stato che non era stato capace di salvare la vita al suo esponente politico più importante, sesta vittima di Via Fani dopo i cinque uomini della sua scorta.
Gallinari, Moretti e gli altri BR a processo
Il seguito è storia nota, almeno per chi ne ha mantenuta memoria. Le dimissioni del ministro dell’Interno Francesco Cossiga (unico caso nella storia della Repubblica), autoincolpatosi per non essere stato capace a liberare il suo collega. Le dimissioni del presidente della Repubblica Giovanni Leone, sull’onda del dramma in corso ma anche e soprattutto dello scandalo Lockeed che aveva avviato anni prima la crisi conclamata del sistema. «Non ci faremo processare nelle piazze», aveva detto in Parlamento proprio Aldo Moro, senza immaginarsi che proprio lui sarebbe finito sotto processo. Se non in piazza, in una cantina.
A giugno arrivò l’elezione di Sandro Pertini ad invertire la tendenza verso il baratro dello Stato e della società italiani. A quel punto, nessuno parlava più di Compromesso Storico. Mentre le forze dell’ordine si mettevano a dare la caccia sul serio ai suoi assassini, del testamento politico e morale di Aldo Moro già non restava più niente.

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