venerdì 8 aprile 2016

Teppa Rossa

E’ un gran guazzabuglio medioevale”, avrebbe detto ancora Mago Merlino se invece di entrare nella cucina del castello di Semola fosse entrato uno di questi giorni nel nostro Parlamento. Piatti sporchi, e soprattutto panni sporchi da lavare in quantità. E un groviglio di situazioni ed interessi da mettere a dura prova il più potente dei maghi. Più che interessi in conflitto, interessi in clamorosa composizione. Più che una classe politica, un comitato d’affari.
Dunque, circa un mese fa una mattina ci svegliamo e qualcuno ci ricorda che tra un mese e mezzo circa c’è da andare a votare per un referendum abrogativo, l’ennesimo della nostra storia repubblicana, il primo chiesto non da un comitato o da un movimento di cittadini ma bensì da nove Consigli Regionali contro il Governo nazionale, ovverosia contro una norma inserita da questo nella legge di stabilità 2014.
E’ la norma che dichiara strategica l’attività di prospezione, ricerca e coltivazione degli idrocarburi liquidi e gassosi sul territorio nazionale. L’approvvigionamento energetico, dice il Governo, è questione di interesse nazionale e pertanto la avoca a sé, escludendo dalle scelte relative e connesse gli Enti Locali, Regioni comprese.
L’iniziativa referendaria, assunta proprio dalle Regioni in virtù del potere loro attribuito dalla Costituzione e che esclude la necessità della raccolta di firme, originariamente nasce presso alcune associazioni ambientaliste. Il referendum del 17 aprile 2016 viene quasi subito denominato pertanto NO TRIV. Si tratta di stabilire se le trivelle del petrolio operanti nel mare territoriale al largo delle nostre coste possono essere prorogate in concessione “per la durata di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale” (in una parola, anzi due, per sempre) – come stabilisce la norma sopra citata – oppure limitatamente alla scadenza quarantennale posta dalla normativa precedente, emendata appunto nel 2014.
Come sempre quando si tratta di questioni di principio in materia ambientale, si scatena il pandemonio. La questione in Italia è delicata, più che altrove. Dai tempi del referendum sul nucleare. Ci lamentiamo delle bollette energetiche sempre più salate, ma di impianti di approvvigionamento sul nostro territorio non ne vogliamo. Siamo circondati da centrali nucleari, da trivelle petrolifere di altri paesi, ma di nostre non ne vogliamo. Vogliamo andare al mare ed in montagna in ambiente “pulito”, come se aria ed acqua avessero dei confini invalicabili. Siamo pronti alla sollevazione popolare per un black out elettrico (come quello del 2004, favorito dal fatto che dipendiamo dalla Svizzera per almeno ¼ del nostro fabbisogno) o per uno sciopero dei benzinai, ma guai ad aprire nuovi impianti. Siamo anche contrari alle pale eoliche perché “deturpano il paesaggio” (e i tralicci dell’ENEL allora? I nostri nonni vivevano al buio, e il paesaggio non lo vedevano nemmeno).
Grande è la confusione sotto il cielo”, diceva il Grande Timoniere Mao Tze Tung, aggiungendo: “la situazione è dunque eccellente”. Dal suo punto di vista di sovvertitore del nostro capitalismo. Dal nostro invece, che in questo capitalismo ci dobbiamo bene o male tirare a campare, la confusione genera soltanto confusione. Dai tempi di Enrico Mattei cerchiamo una via autonoma all’approvvigionamento energetico, e sbattiamo contro la dura realtà delle Sette Sorelle. Dai tempi di Chicco Testa cerchiamo una via alternativa al buon senso, quando si tratta di ambiente ed energia.
Insomma, l’italiano medio si stava preparando a fare quello che ha sempre fatto in questi casi, tranne in una sola circostanza: seguire il consiglio di chi lo invitava ad andare a fare scampagnate anziché andare a votare. Cominciò Bettino Craxi, e gli andò bene fino al 91, quando già le prime avvisaglie di quella che sarebbe diventata Mani Pulite spinsero gli elettori a non disertare il referendum sulla preferenza unica di Mario Segni.
25 anni dopo Matteo Renzi tenta la stessa strategia, con una variante. Non c’è il mare ad attendere gli italiani renitenti al voto, perché la consultazione è stata volutamente anticipata. A giugno ci sono le amministrative in mezza Italia, accorpare il referendum avrebbe voluto dire fargli raggiungere probabilmente il “quorum”, e questo Renzi proprio non lo vuole.
Arroganza del potere? Non proprio. Non solo, almeno. C’è in ballo qualcosa di più. Mentre fautori della politica energetica e quelli dell’ambiente si scornano a colpi di post sempre più confusionari (facendo il gioco di un governo che tutti indistintamente dicono di voler avversare), una bella sera arriva un flash di agenzia più esplosivo delle bombe dell’ISIS.
Federica Guidi e Gianluca Gemelli
La Procura di Potenza ha da tempo avviato una indagine a proposito di un grande giacimento di combustibili fossili che si trova in Basilicata. Si chiama Tempa Rossa, è attivo dal 1989 nella Valle del Sauro e pare essere al centro di un altro guazzabuglio. Una parte delle indagini riguarda il regime autorizzatorio dei lavori dell’impianto (non è mai troppo tardi, ma sono i tempi della giustizia italiana), l’altra una presunta gestione illecita dei rifiuti, vale a dire lo sversamento dei residui della lavorazione del petrolio nelle falde acquifere locali.
Nell’ambito di queste indagini, la Procura ha disposto intercettazioni telefoniche erga omnes. Uno dei soggetti intercettati è Gianluca Gemelli, imprenditore coinvolto in entrambi i filoni dell’inchiesta e – guarda un po’ – compagno di vita di Federica Guidi, Ministro dello Sviluppo Economico. In una delle conversazioni, la ministra riferisce al compagno imprenditore dell’approvazione proprio di quell’emendamento alla legge di stabilità 2014. L’emendamento che porta gli italiani a votare tra due domeniche. Quello che se non abrogato consentirà la proroga sine die delle concessioni petrolifere sul territorio nazionale.
Tra cui Tempa Rossa. Il problema non sono le trivelle in mare aperto, che concorrono al 3% del fabbisogno energetico nazionale (da non disprezzare, comunque, per un paese rimasto fermo in questo campo alle scoperte di Mattei), ma il grande giacimento petrolifero gestito in Lucania per metà dalla francese Total e per metà dall’anglo-olandese Shell. Questo è il nodo nascosto sotto il polverone alzato da un mese a questa parte da chi sostiene il governo e da chi dice di volerlo combattere.
La ministra Guidi si dimette la sera stessa. La sua collega Maria Elena Boschi, malgrado sia indicata dalle stesse intercettazioni come assolutamente “d’accordo” sull’operazione, no. Tantomeno il presidente del consiglio Renzi, che anzi rivendica orgoglioso: “l’emendamento Tempa Rossa l’ho voluto io”.
Insomma, se si va al mare il 17 prossimo venturo (confidando nell’estate anticipata) a chi si fa un piacere? A uno dei governi più chiacchierati dell’intera storia repubblicana, un governo dove gli interessi non sembrano essere più in conflitto come in passato, ma addirittura in commistione come gli ingredienti di un piatto prelibato nelle mani di uno chef di grido? O alla Settima Sorella francese, la stessa che ha ispirato la Primavera Araba ai danni della nostra ENI? La stessa che ha disseminato il nostro territorio di pompe di benzina gestite con criteri di assoluta anti-economicità ma tutt’ora vive e vegete (in apparenza)? La stessa che ha perso la concessione nel Golfo del Messico dopo il disastro ambientale del 2010 e che ha bisogno di contare su nuove importanti concessioni possibilmente di durata storica?
I rapporti tra la politica italiana e il mondo del petrolio sono sempre stati complessi e imperscrutabili. Siamo ancora a cercare di capire che cosa non funzionò sull’aereo di Enrico Mattei, o cosa successe a Pier Paolo Pasolini mentre stava appunto cercando di capirci qualcosa, poco prima di quella notte ad Ostia. Siamo ancora sconcertati da quanto emerse qualche anno fa dagli archivi dei servizi segreti americani, circa la maxi tangente che fu versata al Re d’Italia Vittorio Emanuele III ed al Duce del Fascismo Cavalier Benito Mussolini affinché non sfruttassero il petrolio della Libia (italiana dal 1912) causando di conseguenza un crollo del prezzo del greggio (erano queste, pare, le famose rivelazioni promesse da Giacomo Matteotti quando fu prelevato dagli squadristi di Dumini sul Lungotevere Arnaldo da Brescia il 10 giugno 1924).
Dire di no alle Sette Sorelle è sempre stato complicato per i nostri leader politici. Ma a quanto pare dal 2011 in poi nessuno ha più azzardato neanche un mezzo NI. E dal 2014 in poi pezzi interi di territorio italiano sono andati in svendita come nemmeno le aziende pubbliche privatizzate da Prodi & C.
Ecco perché, ci permettiamo di dire, tra il figlio di Totò Riina e la figlia di Pier Luigi Boschi, ultimi due ospiti della chiacchierata trasmissione di Bruno Vespa Porta a Porta, ci inquieta tutto sommato più la seconda. Questo non è più un mondo di conflitti di interesse. Un gran guazzabuglio medioevale, avrebbe detto Mago Merlino. Lasciamo perdere cosa avrebbe detto Montesquieu.
L’unica cosa certa è che chi va al mare, il nostro consueto mare “fuori porta” rifugio di tante consultazioni referendarie ed elettorali poco sentite, rischia di ritrovarsi nelle acque territoriali di qualche altro paese.
E la bolletta dell’ENEL. La nostra fortuna italica – ormai agli sgoccioli – è cieca. Ma l’Enel, ed Equitalia, ci vedono benissimo.

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