domenica 29 maggio 2016

Come vi piace

Se n’è andato all’età di novantadue anni. Non possiamo dire “l’ultimo dei giganti del teatro fiorentino ed italiano”, perché il maestro Franco Zeffirelli è ancora vivo e vegeto. Ma Firenze e l’Italia piangono oggi una perdita che va ben oltre la vicenda umana terrena di Giorgio Albertazzi.
Con l’estremo saluto a quest’uomo che si è spento ieri a Roccastrada, nella Villa Tolomei di proprietà dell’ultima compagna della sua vita, si chiudono varie epoche della nostra storia. Albertazzi ha attraversato il ventesimo secolo con tutte le sue luci e le sue ombre. Le stesse luci ed ombre che hanno dovuto attraversare tutti coloro che hanno voluto seguirne ed apprezzarne l’opera.
Giorgio Albertazzi, in un paese in cui l’egemonia della cultura è dal dopoguerra appannaggio di una certa sinistra, non si era mai liberato dell’etichetta di “fascista” incollatagli addosso in gioventù a causa delle sue scelte. Nel 1943, in piena guerra civile successiva all’8 settembre, aveva scelto di aderire alla Repubblica Sociale Italiana. Come molti giovani di allora, si era trovato a vivere in un’epoca che non ammetteva di chiamarsi fuori da una scelta drammatica. Lui aveva scelto la parte che la storia aveva dichiarato poi essere sbagliata.
I suoi motivi ideali – aveva poi raccontato dopo essere stato amnistiato dal Ministro della Giustizia Togliatti nel 1947 (era stato accusato di aver fatto fucilare dei partigiani, ma lui si era sempre dichiarato innocente da quella accusa) – erano quelli di un fascismo eroico, delle origini. Ettore Muti, Italo Balbo, la Folgore ad El Alamein. Fosse nato vent’anni prima, sarebbe stato un giovane futurista. Una specie di fascista di sinistra, come lo erano stati tanti altri, che non a caso dopo la Liberazione erano confluiti nelle forze politiche che si richiamavano al socialismo, all’anticlericalismo, al repubblicanesimo quando non addirittura all’anarchismo.
Giorgio Albertazzi nella maturità si era scoperto anarchico prima e radicale poi, tanto da avvicinarsi all’altro grande scomparso di questi giorni, Marco Pannella, e da sposarne le più famose ed importanti battaglie di civiltà. Ma per l’intellighenzia dominante, “fascista” era stato e “fascista” rimaneva. E con lui chiunque avesse inteso poterne ammirare l’arte di recitazione in santa pace, e invece si ritrovava magari a dover affrontare durissime contestazioni di strada. Chi scrive, ricorda perfettamente una sera in cui da ragazzo – si era nel pieno dei roventi anni settanta – per entrare al teatro Niccolini a vederlo recitare per poco non rischiò le botte.
Ma Giorgio Albertazzi valeva la pena. Con le sue maschere variopinte che ne hanno fatto uno degli autori shakespeariani per eccellenza. Era solito dire che Shakespeare, il suo autore preferito, era il genio del teatro che sapeva saltare dalla commedia alla tragedia alla farsa a qualsiasi altro genere con estrema facilità e versatilità. In quel Globe ideale che contiene ed ospita tutti coloro che si sono cimentati con le rappresentazioni sceniche dei capolavori del grande drammaturgo inglese, Albertazzi occupava un posto d'onore.
Nel 1964, in occasione del 400º anniversario della nascita di Shakespeare, aveva debuttato al teatro Old Vic di Londra con Amleto, diretto da Franco Zeffirelli e con protagoniste femminili la sua compagna Anna Proclemer e Anna Maria Guarnieri. Lo spettacolo era rimasto in cartellone per due mesi, e lo stesso attore era stato premiato con una foto nella galleria dei grandi interpreti shakespeariani del Royal National Theatre, unico attore non di lingua inglese. Mentre qui in Italia si discuteva se Albertazzi era stato un feroce fascista o meno, all’estero già gli tributavano onori degni di un Lawrence Olivier.
Dr, Jekyll e Mr. Hyde
Albertazzi aveva tenuto a battesimo anche la televisione, che nei suoi primi anni di vita dava grande importanza nei palinsesti alle riduzioni ed alle sceneggiature di grandi opere letterarie. Nel 1969 era stato un magistrale dottor Jekyll nella trasposizione televisiva del celebre romanzo di Robert Louis Stevenson, lo strano caso del dottor Jekyll e mr. Hyde. Chi meglio di lui, maschera teatrale per eccellenza, poteva incarnare l’uomo bipolare che si sdoppia per effetto della droga trasformandosi da perfetto gentiluomo ed intellettuale vittoriano in energumeno bestiale criminale che sguazza nei sordidi bassifondi di Londra?
Perde molto Firenze, ora che si mette in fila per tributare le onoranze funebri a quest’ultimo esponente di un primato culturale che ormai non esiste più. La città in cui lui non viveva più da tanto tempo non ha più nulla di quella che poteva vantarsi, dalle Giubbe Rosse alla Pergola al Comunale a ogni circolo culturale anche di periferia, di ospitare ed allevare quanto di meglio la razza italiana producesse in ambito culturale. Ormai è una città che procede per stereotipi, secondo una moda inaugurata proprio quarant’anni fa, quando per assistere alle rappresentazioni del maestro Albertazzi si rischiava il linciaggio secondo le parole d’ordine di una sinistra che allora come ora non era neanche capace di scriverle senza errori ortografici.
Ciò che frana nel sottosuolo a due passi dal Ponte Vecchio, frana anche nelle nostre coscienze non più nutrite da quell’humus in cui una volta germogliava il Genio. Le sia lieve la terra, maestro. Lei non era credente, ma qualunque cosa sia successa quando era giovane, lassù l’aspettano per far pace. E godersi in tranquillità la sua splendida, unica, irripetibile recitazione.

Ad aprirle i cancelli del cielo, troverà nientemeno che William Shakespeare.

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