The world turned upside down, suonava la banda militare delle
Giubbe Rosse di Cornwallis a Yorktown, mentre sfilavano dopo la resa nella
battaglia decisiva della Guerra di indipendenza Americana. Il mondo è andato
sottosopra. Capita, nella storia dell’uomo, che rimanga lo stesso per decenni,
addirittura centinaia d’anni sembrando immutabile, granitico nei suoi assetti.
E poi cambi di colpo. La mattina c’è un muro che divide regimi e continenti. La
sera non c’è più. E quel mondo che, brutto o bello, ci era comunque familiare,
diventa irriconoscibile.
Quando l’Europa chiamò di nuovo le sue Nazioni a raccolta nel 1992
perché disputassero un nuovo torneo di calcio, il mondo era appena andato
sottosopra, dopo 40 e passa anni di Cortina di Ferro. Quando erano
iniziate le qualificazioni all’Europeo nell’autunno del 1990, tra le candidate
erano iscritte l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche e
la Repubblica Federale di Jugoslavia. Quando i gironi di
qualificazione si conclusero le due federazioni, che tra l’altro avevano fatto
la storia del campionato d’Europa, non esistevano più.
Nel novembre del 1989 la Germania Est si era arresa,
permettendo alla sua popolazione di assaltare il Muro a
Berlino. L’URSS di Gorbaciov era rimasta
volontariamente e consapevolmente a guardare. Il leader sovietico sperava
ancora di riformare il comunismo in senso democratico, e forse neanche
immaginava di averne stilato l’atto di morte, con la sua acquiescienza alla
rivolta tedesca. Nel giro di un anno la Germania era riunificata per la prima
volta dal 1945. In tutto il mondo controllato dal Patto di Varsavia la
bandiera rossa con la falce ed il martello ammainava.
Nel 1991 alla riunificazione tedesca era seguita dapprima la crisi
jugoslava, con l’avvio del disfacimento della federazione che Tito aveva
governato con pugno di ferro, e che Milosevic non riusciva più
a tenere sotto controllo, sull’onda delle spinte autonomiste e di pulizia
etnica. Poi era stato il turno della stessa URSS. Il colpo di stato dell’agosto
1991, l’ultimo colpo di coda dell’Armata Rossa e dell’establishment del Kremlino,
aveva travolto Gorbaciov. Che aveva sì salvato la vita ed ancora per pochi mesi
il potere. Ma che non aveva più futuro.
Nel gennaio 1992, l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche fu
formalmente dichiarata disciolta da Boris Eltsin, il successore di
Gorbaciov, l’eroe del fallito putsch di Mosca dell’estate
precedente. Al suo posto fu costituita la Comunità degli Stati
Indipendenti, su base apparentemente volontaria. Delle 15 repubbliche che
avevano costituito l’URSS, Estonia, Lettonia e Lituania scelsero
di recuperare immediatamente la libertà persa nel 1940. Altrettanto fece,
nell’immediato e salvo successivo ripensamento, la Georgia.
Henrik Larsen segna all'Olanda |
Nello stesso momento, in Jugoslavia, serbi e croati saltavano alla
gola l’uno dell’altro, rovesciandosi addosso a vicenda un odio feroce come se i
quarant’anni di regime titino non fossero esistiti. Nei Balcani l’unico
soggetto politico effettivo erano le armi e chi le impugnava. A Mosca parlava
Eltsin, a Belgrado la Tigre Arkan.
In quel 1992, insomma, il mondo – e l’Europa in particolare – aveva
ben altro da pensare che al pallone. Proprio il Vecchio Continente,
uscito dalla seconda guerra mondiale come ridimensionato e posto sotto tutela
dalle Grandi Potenze vincitrici USA e URSS, parve voler
regolare tutti i conti lasciati in sospeso dalla lunga stagnazione sotto la
Cortina di ferro. La frenesia di cambiamento tra gli Stati e negli Stati
sembrava travolgere tutto e tutti.
Ma lo spettacolo doveva andare avanti. Lo spettacolo lo fa sempre. E
il calcio ormai non era più sport, appunto, ma spettacolo puro. Show
business. Il resto del movimento sportivo mondiale si preparava al grande
evento delle Olimpiadi di Barcellona, che avrebbero celebrato il ritorno a
pieno titolo della Spagna tra i paesi più avanzati e civili del mondo e nello
stesso tempo la fine dell’epoca dei boicottaggi politici. Poco dopo il Muro
di Berlino, era crollato infatti anche l’Apartheid in
Sudafrica. Nelson Mandela era stato liberato dalla prigione di Robben
Island e si apprestava a diventare presidente del suo paese. Si, il
mondo stava andando davvero sottosopra.
Nel calcio, l’establishment era fermo ai risultati di Italia
90. Il controverso mondiale italiano era partito tra mille promesse di
spettacolo, e ne aveva mantenute poche. Aveva vinto la Germania,
per l’ultima volta con la specifica Ovest perché di lì a pochi
mesi Helmut Kohl avrebbe celebrato la riunificazione
sotto la cornice della Porta di Brandenburgo. L’Italia,
che era accreditata della squadra migliore e più spettacolare, era stata in
parte sfortunata (eliminata in semifinale da una papera del portiere Zenga e
dalla lotteria dei calci di rigore), in parte si era complicata la vita da
sola, avviando la spedizione tra mille polemiche sia sportive che di natura
politico-economica.
Italia 90 era andata a finire come Italia 80, i tedeschi
ringraziavano, e volevano proseguire nella loro marcia trionfale anche al
successivo Europeo. Che era stato affidato alla organizzazione della Svezia. Il
paese scandinavo aveva solo il precedente del mondiale del 1958, a cui si era
presentato con una squadra di fuoriclasse, sconfitti soltanto dai fuoriclasse
brasiliani guidati da Pelé. Dopo di allora, poca gloria e a
sprazzi. Nel 1992 non c’era un vero favorito, a parte le solite Olanda e
Germania più per un fatto di blasone che per altro. La Svezia poteva
anche sognare di farcela.
Nelle qualificazioni si era persa la bella Italia di Azeglio
Vicini. La fine deludente di Italia 90 aveva lasciato il suo bravo
strascico di polemiche all’italiana. L’appannarsi della stella di Gianluca
Vialli e la resistenza dell’ambiente azzurro al talento di Roberto
Baggio avevano limitato la prestazione dei nostri al mondiale. Antonio
Matarrese, presidente della Federcalcio, non perdonava a Vicini
di non avergli portato in sede la Coppa del Mondo e non vedeva l’ora di
liberarsene. Il clima in casa azzurra era pessimo, ed era bastata un’URSS non
trascendentale (ma ancora solidamente basata sul blocco della Dinamo
Kiev) per farla fuori.
Anche Vicini era stato fatto fuori. La nouvelle vague del
calcio nostrano si chiamava Arrigo Sacchi. Fu a lui, reduce dai
trionfi internazionali del Milan di Berlusconi,
che Matarrese affidò le sorti azzurre. Ma gli Europei 92 gli italiani li
avrebbero visti alla televisione, senza partecipare. Insieme a loro, spagnoli e
cechi eliminati dai francesi, rumeni e svizzeri dagli scozzesi, belgi dai
tedeschi, greci e portoghesi dagli olandesi, polacchi e irlandesi dagli
inglesi. Nel gruppo 4 si era qualificata la Jugoslavia, ma al momento di
partire per Stoccolma, la Jugoslavia non c’era più. Al suo posto fu ripescata
la Danimarca, e nessuno si immaginava che effetto avrebbe avuto
quella wild card. L’URSS a quel punto si chiamava C.S.I.,
e francamente non sembrava già più la stessa cosa.
Nel primo gruppo di quarti di finale, Francia e Inghilterra dovevano
vedersela con Svezia e Danimarca. Dal girone del Mare del Nord uscirono le due
squadre scandinave, capaci di eliminare le più quotate avversarie. La Svezia
chiuse al primo posto avendo vinto il derby vichingo con i
danesi. Nel secondo gruppo, Olanda e Germania sembrarono i grado di perpetuare
il loro eterno duello, strapazzando scozzesi ed ex-sovietici. Gli orange chiusero
al primo posto del girone, avendo battuto i tedeschi per 3-1.
Brian Laudrup con al Coppa Europa |
Nelle semifinali incrociate, la Germania ebbe ragione dei sogni di
gloria svedesi con un rocambolesco 3-2. Per i tedeschi era la quarta finale dal
1972. Nell’altro confronto, i campioni in carica dell’Olanda sembravano poter
disporre dei ripescati danesi. Non fu così, la Danimarca si portò sul 2-0,
venne riacciuffata e costretta ai calci di rigore. Ma gli olandesi si
dimostrarono altrettanto idiosincratici alla lotteria dei penalties degli
italiani. Toccò, ironia della sorte, proprio a Marco Van Basten fallire
il tiro dal dischetto decisivo. Una mesta conclusione per l’eroe di quattro
anni prima, che si era presentato all’Europeo dopo una difficile convalescenza
dal grave infortunio alla caviglia che avrebbe finito per costargli la
carriera.
In finale, la solita solida Germania a far la parte di un Golia favorito
dal pronostico contro il Davide danese, che sembrava aver
speso tutte le sue risorse di fortuna dal ripescaggio fino alla qualificazione
a quell’atto conclusivo. Il 26 giugno allo Stadio Ullevi di Goteborg la
Germania riunificata poteva dispiegare tutta la sua potenza calcistica contro
un paese che fino a quel momento aveva fatto sempre da comprimario.
Fino a quel momento. Era destino che, nell’anno in cui il mondo era
andato sottosopra, i vichinghi tornassero a compiere una delle loro leggendarie
scorrerie. Il drakkar danese era meno carico di campioni che
in passato, ma quel giorno per i tedeschi non ce ne fu. Un gol per tempo, e la Coppa
Delaunay andò ad arricchire il bottino di razzia danese. L'annus
mirabilis, oppure horribilis secondo i punti di vista, si
chiudeva con la più grande delle sorprese. Davide non avrebbe dovuto nemmeno
esserci, eppure ancora una volta aveva steso al suolo Golia.
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