lunedì 27 giugno 2016

Cahiers de Paris (y de Buenos Aires): Las manos de Diòs



Piange (di nuovo) l’Argentina. Parla sommessamente la Pulce, in un angolo: «La Nazionale per me è finita. Ci sono state quattro finali. E non mi sono bastate. Ci ho provato. Era la cosa che desideravo di più, ma non ci sono riuscito, quindi penso che sia finita».
Messi ancora una volta con la medaglia d'argento, l'ultima?
Il Cile vince ai rigori l’edizione straordinaria del Centenario de la Copa America, bissando il successo ottenuto nell’edizione regolare casalinga dello scorso anno (normalmente il trofeo viene disputato negli anni dispari per non interferire con Mondiali e Olimpiadi). E’ proprio Lionel Messi a sbagliare il rigore decisivo, calciando alto sopra la traversa proprio come Roberto Baggio più di vent’anni fa a Pasadena. Gli errori di altri due pezzi da novanta come Lucas Biglia e Arturo Vidal si elidono a vicenda. E’ il tiro mancato dal dischetto dalla Pulce quello che resterà nella memoria collettiva, non solo argentina.


A East Rutherford nel New Jersey, partita di finale bruttissima, con pochissime occasioni da rete e due espulsi, uno per parte. Delusione argentina che nasce proprio dalle prestazioni dei suoi uomini migliori, non solo Messi ma anche el Pipita Higuain.  Che perde per parte sua nuovamente l’occasione di soppiantare nel cuore dei tifosi dell’albiceleste Omar Gabriel Batistuta, l’unico argentino che salva qualcosa da questa spedizione statunitense. Se Leo gli ha tolto il record di reti in nazionale portandolo a 55, né lui né il centravanti del Napoli sono riusciti a togliere il suo poster dalla sede della Federcalcio argentina, né dalle camerette di tutti i niños dal Rio de la Plata alla Patagonia.

Un giovanissimo Batistuta con l'ultima medaglia d'oro argentina

Il Re Leone resta dunque l’ultimo ad aver portato a Buenos Aires la Copa. Le sue due vittorie del 1991 (quella che gli valse il contratto con la Fiorentina) e del 1993 sono uno sprazzo di luce in un albo d’oro che riporta soprattutto ombre per la nazionale biancoceleste. Ha sempre vinto poco l’Argentina, non solo le ultime quattro finali (inframmezzate da un’altra pessima prova nella finale mondiale di Rio de Janeiro, la vittoria mancata nella tana dell’odiato nemico brasiliano a cui gli argentini tenevano di più) che sono costate a Messi la possibilità di essere accostato al Pibe de Oro, quel Diego Armando Maradona che alla vigilia del torneo lo aveva fatto oggetto di una bocciatura storica, dolorosissima. Ha classe immensa, aveva detto, ma non ha carisma, non è un leader. Non come lo ero io, ha sottinteso.
Già, il Pibe. Combinò poco anche lui in Coppa America, ma si rifece ampiamente ai mondiali trascinando da solo alla vittoria un’Argentina assai meno forte di questa in Messico nell’86 e mancando di pochissimo il clamoroso bis in Italia nel 90. E c’è chi dice che se el Flaco Menotti avesse avuto un po’ più di coraggio, Dieguito avrebbe potuto far parte del trionfo casalingo del 78. Di sicuro, la forte Argentina del 94 una volta perso lui per doping uscì ignominiosamente di scena malgrado avesse a bordo fior di campioni a cominciare da Batistuta.
Come se gli dei avessero voluto un risarcimento per essere stati chiamati in causa impropriamente nell’unica vittoria di Diego. Quel gol che aprì la strada alla vittoria argentina sull’Inghilterra e alla vendetta per la Guerra delle Falkland – Malvinas (chissà che ne pensa il buon Diego della Brexit) – un plateale fallo di mano visto da tutti in mondovisione meno che dall’arbitro tunisino Ali Bin Nasser Bennaceur – fu definito sfrontatamente da Maradona la mano de Diòs.
La mano de Diòs di Maradona su Shilton
Dio consentì quel giorno che la classe e la faccia tosta del Pibe argentino ridimensionassero la superbia inglese, ma poi non gli perdonò più nulla. Quattro anni dopo, il più grande giocatore del mondo dopo Pelé fu atteso al varco dalla suerte e gettato nella polvere. Una polvere da cui non si sarebbe più rialzato.
Difficile unirsi al giudizio di Diego, e sparare sulla Croce Rossa, pardon, sulla Pulce Leo Messi. A volte si nasce con un gran dono, e non si ha il carattere giusto per sfruttarlo fino in fondo. A volte, lo stesso dono si getta via per aver preteso troppo da una vita a cui si è riso in faccia beffardamente ogni giorno. I gol di Messi sono stati segnati tutti con i piedi, Dio non ha mai dovuto intervenire, nemmeno a disturbare una barriera o ad aprirgli un varco nelle difese avversarie.
Dio gli ha reso la vita difficile nei primi anni, poi l’ha mandato nel posto dove quella vita poteva decollare verso orizzonti di gran lunga migliori. Dio gli ha reso tutto con gli interessi, lui con le mani ha forse avallato qualche operazione finanziaria non proprio lecita, ma non ha mai segnato gol. Eppure, nessuno dei suoi gol regolarissimi sarà ricordato come quel secondo del malandrino di professione Maradona, che si fece perdonare il furto del primo scartando l’intera squadra inglese e legittimando un titolo mondiale con un gesto tecnico quasi mai più rivisto su un campo di calcio.
La vita prende direzioni imprevedibili. Chi tira in ballo Dio per un colpo di mano dovrebbe stare attento, generalmente. Prima o dopo Dio se ne ricorda. Non è ancora venuto il turno della Francia. Non è ancora venuto il momento di pagare il conto della mano di Henry. L’Irlanda si è illusa ieri pomeriggio, ma Griezman le ha tolto qualsiasi velleità. Anche lui praticamente da solo, come Maradona, fatte le debite proporzioni.
Era il 18 novembre del 2009, si giocavano le qualificazioni al mondiale sudafricano. Allo Stade de France arrivò l’Irlanda, allenata da Giovanni Trapattoni. Giocò talmente bene da arrivare al ’90 in vantaggio 1-0 e con almeno un altro paio di occasioni fallite. Saint Denis era in pieno dramma, la Francia vice-campione in carica era a un passo dall’eliminazione dai mondiali, con la prospettiva di giocare supplementari e rigori contro un avversario che aveva fatto la partita della vita. Un gol irlandese l’avrebbe condannata, uno suo l’avrebbe qualificata. Dentro o fuori in pochi minuti.
La mano di Henry contro l'Irlanda
Al ’12 del primo tempo supplementare, punizione da centrocampo alla disperata di Malouda, che coglie Squillaci in netto fuorigioco. L’arbitro svedese Hansson ha le stesse diottrie del tunisino Bennaceur di 23 anni prima. La palla starebbe comunque per uscire sul fondo, quando Thierry Henry la controlla con la mano, anche lui in mondovisione. Hansson imperturbabile, Henry mette in mezzo, Gallas segna da un metro, Francia ai Mondiali, furia Trapattoni.
La mano di Henry non fu imputata a Dio, ma a qualcuno che in quel momento era subito sotto. Come già in altre circostanze, al gol di Gallas convalidato da Hansson tutti gli occhi si voltarono verso il presidente UEFA, Michel Platini, di nazionalità francese.
Ieri era il giorno della rivincita. La Francia ha sostituito i talentuosi Platini e Zidane con quel Pogba che aveva messo subito la partita sul binario giusto, ma per gli irlandesi. Fallo imbarazzante su Long già al ‘2, Irlanda avanti, stavolta non sarebbe bastato un colpo di mano. Ci voleva Griezman, lui si che potrebbe succedere a Platini e Zidane, almeno sul campo. Lui ha portato la Francia ai quarti, con i piedi. Lui ha rimandato la vendetta irlandese.
Griezman, per ora il salvatore della patria
E Dio? Aspetta. Non ha dimenticato Henry, e come ogni altro spettatore avrà notato che questa Francia non è granché, Griezman a parte. Avrà inoltre sicuramente sospeso il giudizio su Platini, gran calciatore ma manager discutibile e discusso.
Anche senza l’intervento di Nostro Signore, per la Francia i bonus dovrebbero essere finiti. Nei quarti i bleus troveranno l’Inghilterra. L’occasione per chi è scontento della Brexit per prendersi una rivincita pallonara, ma anche l’occasione per ritrovarsi alle prese con una Franxit che per Parigi sarebbe più dura da gestire del referendum di Londra.
Anche l’Inghilterra di conti in sospeso con la sorte ne ha diversi. Dio, a proposito, non paga il sabato. Infatti si giocherà di domenica.

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