mercoledì 8 giugno 2016

Il Grande Slam

Con la vittoria di domenica all’Estade Roland Garros, Novak Djokovic è entrato nella storia dei grandi del tennis, e ha due match ball per entrare addirittura nella leggenda, nel corso di questo che sembra essere decisamente il suo anno. Dopo quattro set combattutissimi contro lo scozzese Andy Murray, è a lui che Adriano Panatta, ospite speciale per l’occasione, ha consegnato quella Coppa dei Moschettieri che lui stesso – ultimo italiano a riuscirci – vinse su questo campo quarant’anni fa.
A quell’epoca, la Serbia era parte della Confederazione di Jugoslavia, aveva diversi ottimi tennisti, ma nessuno che potesse aspirare a diventare il numero uno di questo sport. C’è riuscito, dopo quasi mezzo secolo ed un lungo apprendistato dietro altri due mostri sacri come Roger Federer e Rafael Nadal, Novak Djokovic detto Nole, serbo atipico di Belgrado, dotato di talento sui tennis courts quanto simpatico fuori di essi.
Il vincitore del 1976 Adriano Panatta
E’ il diciottesimo major tournament che il ragazzo allenato dall’ex campione Boris Becker mette in fila. I suoi numeri sono importanti, ma più importanti ancora lo diventerebbero se ai prossimi tornei di Wimbledon e Flushing Meadows arrivassero le sue vittorie numero 19 e 20. Tutte in questo anno solare.
Si chiama Grand Slam, è una espressione mutuata dal bridge. Con le carte, si verifica allorché un giocatore riesce a realizzare tutte e tredici le prese ai danni dell’avversario. La trasposizione dello Slam nel tennis avvenne nel 1933, in piena età pionieristica di questo sport.
L’australiano Jack Crawford aveva già vinto tre dei quattro tornei più importanti in quell’anno solare, gli Australian Open, Roland Garros e Wimbledon. Si apprestava a scendere in campo nel quarto e ultimo, a Forest Hills, sede degli U.S. Open fino al 1977, anno in cui fu soppiantata da Flushing Meadows. A quell’epoca, i padroni del tennis erano i paesi che l’avevano inventato (almeno nella versione moderna), e che avevano vinto almeno una volta la Coppa Davis, quello strano torneo a squadre che si disputava annualmente nell’ambito dello sport più individualista che esista, e che fino al 1974 era stato appannaggio appunto esclusivamente di U.S.A., Gran Bretagna, Francia ed Australia. I championship di questi paesi erano per forza di cose i tornei più ambiti, e lo sono rimasti anche in epoca moderna.
Il giornalista del New York Times Jack Kieran scrisse «Se Crawford vince, sarebbe come segnare un grande slam nel bridge». Il Grande Slam della racchetta nacque così. Per inciso, Crawford arrivò ad un passo dal battezzarlo subito personalmente. Conduceva la finale contro l’inglese Fred Perry per due set a zero, prima di crollare di schianto e perdere addirittura il quinto e decisivo set a zero.
Panatta premia Djokovic
Per assistere all’impresa di un tennista che realizza lo Slam, si dovette attendere fino al 1938. John Donald Don Budge era americano di Oakland, ma figlio di immigrati scozzesi. Se suo padre John sr. non avesse subito un grave infortunio come calciatore professionista dei Glasgow Rangers e non fosse stato costretto a trasferirsi negli States per curare i gravi postumi di quell’infortunio, il primo Grand Slam sarebbe stato dunque realizzato da un britannico, e non da uno yankee.
A quei tempi, i tennisti ammessi ai championship erano rigorosamente dilettanti. Come tale, il figlio del calciatore scozzese realizzò un’impresa mettendoli in fila tutti e quattro, entrando quindi nella leggenda ma guadagnandoci (almeno ufficialmente) assai poco.
Per avere la prima lady capace di tanto, invece, bisognò attendere il 1953. Maureen Catherine Connolly Baker era anch’essa americana, californiana di San Diego. Di famiglia non agiata, aveva ripiegato dalla costosa ippica al tennis, allora più alla portata di tutti almeno negli U.S.A. A 14 anni era già un fenomeno, a 19 aveva già realizzato l’impresa che la maggior parte delle sue colleghe della sua generazione e delle successive avrebbe potuto soltanto sognare. E lo fece perdendo un solo set in tutti e quattro i tornei. La vita le tolse poi quello che le aveva concesso lo sport: a 34 scomparve prematuramente, essendosi ammalata di cancro.
Rodney George Rod Laver, Rockhampton rocket (il razzo di Rockhampton), sembrava uno dei tanti campioni che il tennis australiano sfornava in quantità industriale fino agli anni sessanta. Nel 1962, divenne chiaro che era il più grande. Allora, tre dei quattro major si disputavano sull’erba, e uno solo (Parigi) sulla terra. Lui era il numero uno su tutte le superfici e lo rimase per sette anni. Il 1962 fu anche l’ultimo suo anno da dilettante. In quel periodo la nascente A.T.P. il sindacato dei tennisti, si stava battendo per il riconoscimento del professionismo nel tennis. La battaglia fu lunga, e fu vinta solo nel 1969. A Rod Laver, che aveva scelto il professionismo subito dopo lo Slam venendo di conseguenza bandito dai tornei più importanti, essa costò gli anni migliori di carriera, e chissà quanti altri titoli da aggiungere agli oltre 200 comunque vinti. Tornò, come Muhammad Alì, sette anni dopo, nel 1969. Come Muhammad Alì, era ancora il più grande. E mise a segno un altro Slam, questa volta da professionista.
Rod laver
Dopo di allora, nessun uomo è più riuscito nell’impresa. Ecco perché i match ball a disposizione di Nole Djokovic hanno una importanza così fondamentale. Quanti suoi colleghi sono arrivati ad un passo dall’impresa, senza riuscirci…. Da Bjorn Borg, fermato in finale degli U.S. Open da Jimmy Connors nel 1978, a John McEnroe, capace di perdere contro Ivan Lendl in finale a Parigi nel 1984 lo stesso match che Crawford aveva perduto da Perry nel 1933, troppo self confident. A Sampras, ad Agassi, a Federer, a Nadal. Tutti caduti sull’ultimo ostacolo.
E le donne? Attendono da meno tempo. Nel 1970 Margaret Court Smith rispose a Rod Laver con il secondo Slam femminile. Australiana di Albury nel Nuovo Galles del Sud, capace di vincere ancor più titoli in assoluto del suo connazionale maschio, compì l’impresa nell’anno rimasto famoso per l’introduzione nel tennis del tie-break che accorciava le partite, oltre che definitivamente del professionismo. E andò vicina a ripeterla l’anno successivo, fermata solo nella finale di Wimbledon dalla connazionale Yvonne Goolagong Cawley. Da notare, Margaret giocò quella finale in stato interessante, incinta di un mese circa del primo figlio Daniel.
Stefanie Graf
Poi più nulla, malgrado fossero gli anni di Chris Evert e di Martina Navratilova. Fino all’88. Fino all’unica europea capace di entrare in questa Hall of Fame tutta particolare. E di entrarci in un modo del tutto speciale. Steffi Graf mise in fila tornei ed avversari come un rullo compressore, quell’anno. Mettendo fine all’epopea del lungo duello e predominio della coppia Evert/Navratilova. E siccome in quell’anno il tennis divenne anche sport olimpico, con la vittoria a Seul Steffi divenne l’unica fino a questo momento realizzatrice del Golden Grand Slam. Lo Slam impreziosito dalla medaglia d’oro olimpica. Nel 1993, dopo l’intermezzo di Monica Seles interrotto dal famoso attentato di Amburgo, Steffi ritornò la numero uno, ma riuscì a realizzare solo tre quarti di Slam, mancando l’Australia.
Da allora, nessuno più. Tra gli uomini, Federer, Nadal e adesso Djokovic hanno realizzato il Career Grand Slam, i quattro tornei vinti in successione ma non nello stesso anno solare. Tra le donne, Serena Williams e Maria Sharapova.
Tra pochi giorni, sul Centre Court di Wimbledon Nole serve il primo match ball per la leggenda del tennis. Il secondo ai primi di settembre a Flushing Meadows. E’ davvero il suo anno? Lui è convinto di sì.

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