domenica 1 luglio 2012

Storia delle Olimpiadi: La grande illusione e la Grande Depressione (1928 - 1932)

Nel 1928, la staffetta dei Tedofori partì da Olimpia per portare la fiamma al braciere predisposto a Sankt Moritz, in Svizzera, dove era predisposta la cerimonia di apertura della seconda edizione dei Giochi Invernali.
L’edizione estiva era andata ad Amsterdam, capitale di un paese che notoriamente è sprovvisto di montagne, i Paesi Bassi. Che avevano dovuto lottare per avere finalmente la soddisfazione ed il prestigio di ospitare le Olimpiadi quasi altrettanto duramente di quanto avevano fatto in passato per strappare lembi di terra su cui sopravvivere al Mare del Nord.
Gara di pattinaggio a Saint Moritz, 1928
Dall’11 al 19 febbraio dunque la celebre località svizzera consacrata alle vacanze d’inverno presentò al mondo l’antipasto di quella che sarebbe stata poi in estate la Nona Olimpiade. Era un programma assai ridotto quello dei Winter Games di allora. Bob, Pattinaggio, Hockey su ghiaccio e Combinata nordica (sci di fondo e salto con gli sci). Lo sci alpino era totalmente escluso. Il medagliere era monopolio dei paesi scandinavi, con Stati Uniti e Canada a fare da terzi incomodi.
Il 28 luglio venne il momento di Amsterdam. Gli olandesi avevano già partecipato all’organizzazione parziale dei Giochi del 1920, coadiuvando il vicino Belgio in fase di ricostruzione post-bellica. Si erano visti preferire Parigi nel 1924, perché al carismatico barone de Coubertin non si poteva dire di no. Il 1928 fu infine il loro anno, ma all’appuntamento con la storia si presentarono con la flemma quasi britannica che li contraddistingue, a cominciare dalla regina Wilhelmina d’Orange che non intese rinunciare al suo viaggio in Norvegia per presenziare alla cerimonia d’apertura, e lasciò l’incombenza al principe consorte Hendrik.
Halina Konopacka (Polonia) prima donna a vincere la medaglia d'oro in atletica
Fu un’Olimpiade tranquilla, com’era nel carattere degli organizzatori. Per una comunità internazionale a cavallo tra gli orrori verificatisi dieci anni prima e quelli che si sarebbero verificati dieci anni dopo, era probabilmente quanto di meglio potesse offrirsi. La Germania si era ripresentata ai Giochi nella versione democratica ed apparentemente prospera della Repubblica di Weimar. Il martedi nero di Wall Street, che avrebbe travolto le illusioni tedesche nonché quelle del mondo intero, era di là da venire. Mancava solo la Russia, che sotto la guida di Stalin stava consolidando il regime comunista e isolazionista.
I flemmatici olandesi presentarono all’opinione pubblica un programma olimpico finalmente moderno, con le gare concentrate nei quindici giorni canonici che da allora siamo abituati a vedere. Presentarono anche il primo esempio di ritardi nell’esecuzione di lavori di allestimento. Al momento in cui l’ultimo tedoforo proveniente dalla Grecia accese il braciere, il villaggio olimpico non era terminato. Alcune nazioni dovettero arrangiarsi per la sistemazione. La squadra italiana alloggiò per tutto il tempo delle gare su un piroscafo.
Furono le Olimpiadi della consacrazione di alcune leggende. Johnny Weissmuller bissò i successi di Parigi avviandosi a lanciare il primo urlo di TarzanPaavo Nurmi il finlandese volante conquistò la nona medaglia d’oro in tre olimpiadi diverse, vincendo i 10.000 metri.
Equipaggio del "quattro con", medaglia d'oro
L’Italia concluse soltanto al quinto posto del medagliere, con 7 medaglie d’oro e 19 complessive, risultato che si dice non soddisfacesse affatto il Cavalier Benito Mussolini capo del governo, il quale – uno dei primi uomini politici moderni a comprendere il significato dello sport i termini di propaganda – dette il via ad una rivoluzione ai vertici del CONI e in materia di legislazione sullo sport. Nel calcio, l’Italia che nel decennio successivo avrebbe dominato non si piazzò male, concludendo terza. Oro e argento andarono rispettivamente al favoloso Uruguay di Pedrone e Andrade che aveva già sbancato Parigi quattro anni prima ed all’Argentina di Luisito Monti (poi naturalizzato e campione del mondo con l’Italia nel 1934), in una significativa anticipazione di quella che sarebbe stata la finale del primo campionato del mondo di calcio nel 1930.
Il capitano dell’esercito giapponese Mikio Oda vinse nel salto triplo la prima medaglia d’oro di un paese asiatico. Furono ben 33 nazioni sulle 46 partecipanti a tornare a casa con almeno una medaglia (un record che avrebbe resistito per 40 anni), exploit reso possibile peraltro dal calo di prestazioni degli U.S.A. per i quali Amsterdam fu una delle peggiori Olimpiadi di sempre, malgrado il primo posto nel medagliere.
Uruguay campione olimpiadi 1928 e poi mondiali 1930
Nella cerimonia di chiusura, il mondo si dette appuntamento a Los Angeles nel 1932. La bandiera a stelle e strisce saliva di nuovo sul pennone olimpico dopo l’esperienza fallimentare di Saint Louis del 1904. La città prescelta, ancora ai primi del secolo, era poco più del villaggio di agricoltori e peones che aveva ispirato la fantasia di Johnston McCulley nel dar vita al personaggio di El Zorro. Ma Nuestra Señora de Los Angeles, a cavallo della Grande Guerra, grazie all’industria petrolifera e a quella cinematografica era diventata rapidamente una delle capitali del sogno americano. La città che nel 1932 attendeva gli atleti del resto del mondo contava ormai oltre un milione di abitanti ed era una delle porte verso la modernità del ventesimo secolo.
Quello che nessuno poteva sapere, all’atto dello spegnimento del braciere di Amsterdam, era che il mondo sarebbe stato profondamente differente al momento di accendere quello di Los Angeles. Il 24 ottobre del 1929 insieme a Wall Street andarono in pezzi l’illusione del capitalismo di governare insieme processi economici e dinamiche sociali e quella coltivata dall’umanità attraverso la Società delle Nazioni di avere ingabbiato per sempre gli istinti peggiori di uomini e stati e di poterne neutralizzare le conseguenze.
Los Angeles Memorial Coliseum
Quattro anni dopo, gli Stati Uniti erano quelli della Grande Depressione, sconvolti dai fallimenti e dalla fame di un numero sempre crescente di cittadini (con il New Deal di F.D.Roosevelt ancora di là da venire). La Germania era ancora per poco quella di Weimar, alle imminenti elezioni - da tenersi in un paese economicamente disastrato che non ce la faceva più a pagare agli ex Alleati le ingenti riparazioni stabilite a Versailles nel 1919 e ad assicurare la sopravvivenza a cittadini che viaggiavano ormai con le proverbiali carriole cariche di inutili marchi – si sarebbe presentato il Partito Nazionalsocialista di Adolf Hitler e questa volta la sua prospettiva era di fare il pieno di voti. L’Asia era in fiamme, con il Giappone che perseguiva il suo destino imperiale a scapito della Cina che aveva appena visto dissolversi il suo, con gli occhi già puntati minacciosamente sulle colonie delle potenze europee. L’Europa dal canto suo vedeva l’insorgere di regimi dittatoriali a macchia d’olio, contro i quali sembrava che non ci fosse più deterrente.
Gli U.S.A. ce la misero tutta per far dimenticare a se stessi ed al mondo i propri guai. La costruzione del Los Angeles Memorial ColiseumThe Old Gray Lady, lasciò in eredità post-olimpica una meraviglia del mondo moderno, che sarebbe tra l’altro tornata utile nel 1984 quando la fiaccola sarebbe ritornata in California per la XXIII^ edizione. La tecnologia statunitense, già avanzata all’epoca, fece bella mostra di sé: impianti ultramoderni, cronometri elettrici, cineprese speciali sul traguardo, perfezionamento del fotofinish, calcolo dei centesimi di secondo, altoparlanti per gli spettatori. A tutto ciò fece da contraltare una insolita sciatteria e negligenza da parte dei giudici di gara, di cui si lamentarono molte squadre.
Clint Eastwood e Tsuyoshi Ihara (l'interprete di Takeishi Nishi) sul set di lettere da Ivo Jima
Il guaio era che il mondo convenuto a Los Angeles aveva meno voglia di giocare che in passato. Il numero degli atleti presenti era praticamente dimezzato. Ne beneficiò l’Italia, che finì per piazzarsi al secondo posto del medagliere dietro gli U.S.A. con 12 medaglie d’oro, un risultato che è stato migliorato sempre a Los Angeles, ma nel 1984. Il Duce aveva avuto la brillante intuizione del dilettantismo di stato, che aggirava il divieto di professionismo. Gli atleti italiani erano tutti dipendenti dello stato fascista, ed era consentito loro di allenarsi a fondo in deroga a qualsiasi altro dovere professionale. Tra i successi italiani non ci fu quello nel calcio, disciplina che nel 1932 non era stata ammessa al programma olimpico (per rimostranza contro la recente istituzione dei Campionati Mondiali) e che sarebbe tornata in cartellone nel 1936.
Per il resto, pochissime figure di rilievo. Con il senno di poi, soltanto una: quel Takeichi Nishi vincitore dell’unica medaglia d’oro giapponese nell’equitazione della storia. Sarebbe morto nel 1945 nella disperata difesa dell’arcipelago Ogasarawa, la porta del territorio nipponico, e Clint Eastwood ne avrebbe fatto poi uno dei protagonisti del suo Lettere da Ivo Jima.
L’edizione invernale si era disputata sempre in America (decisione per quanto possibile applicata anche in altre edizioni successive), a Lake Placid nello Stato di New York. Gli U.S.A. si presero la rivincita sulla Scandinavia, vincendo il medagliere con sei ori contro i tre della Norvegia. La pattinatrice norvegese Sonia Hejne fu tuttavia il personaggio di quella olimpiade, la terza consecutiva da lei dominata nella sua specialità.
Programma sempre limitato dalla mancanza dello sci alpino, e dall’assenza di nazioni come l’Italia la cui vocazione allo sport d’inverno era tutta ancora da scoprire.

Quando fu il momento di ammainare le bandiere e spegnere il braciere, il mondo si dette appuntamento in Germania, a Berlino. I tedeschi erano in ritardo di vent’anni rispetto ai loro programmi, poiché avrebbero dovuto ospitare l’edizione del ’16, mai disputata a causa dello scoppio della Grande Guerra da loro provocata. La bandiera che scese dal pennone di Los Angeles era quella tradizionale a tre colori, lasciata in eredità dal Kaiser alla Repubblica di Weimar. Quella che sarebbe salita su nuovamente a Berlino sarebbe stata di tutt’altro colore: rossa, e con la croce uncinata in campo bianco.

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