lunedì 13 agosto 2012

DIARIO OLIMPICO: Addio Londra. La fiamma olimpica si è spenta.


LONDRA - Addio Londra. Arrivederci Olimpia. La fiamma si è spenta stanotte alle 24:00 circa, ora di Greenwich, a chiusura della edizione dei Giochi Olimpici più rock e più glamour che la storia ricordi. Del resto, il mondo (non solo quello sportivo) non si era riunito per la terza volta nella capitale britannica per caso, ma bensì per ritrovare quella sua anima swinging che già cinquant’anni fa aveva cambiato la nostra società e la nostra vita in un modo che allora era sembrato migliore.
Con una cerimonia di chiusura più informale e tuttavia più suggestiva di quella di apertura, è andata in archivio la XXX Olimpiade dell’Era Moderna. Le grandi stelle del Rock di tre o quattro generazioni hanno preso il palcoscenico che per 16 giorni era stato degli atleti, e hanno dato vita a uno spettacolo a cui, da Woodstock in poi, siamo certamente ormai abituati ma che ogni volta si rinnova in un nuovo evento memorabile quanto i precedenti.
E così, alla fine, quando Roger Daltrey degli Who ha chiuso il concerto con My generation è sembrata a tutti la scelta migliore. Dagli anni cinquanta in poi tutte le generazioni hanno celebrato se stesse e la propria voglia di vivere in modo sempre diverso da quelle precedenti qui, a Londra.
Gli atleti, disposti sul terreno dell’Olympic Stadium di Stratford (per l’occasione riadattato a rappresentazione vivente della Union Jack, la bandiera britannica) sono sembrati per due ore nient’altro che fans delle stelle del rock sul palco, se non fosse che molti avevano al collo ed esibivano le medaglie olimpiche conquistate nelle settimane passate.
Londra e la Gran Bretagna hanno dunque celebrato se stesse nel modo più appariscente ed efficace, e non solo a livello musicale. Sebastian Coe, presidente del Comitato Organizzatore, ha potuto a buon diritto esibirsi in un discorso degno della migliore tradizione britannica, giustamente orgoglioso di quanto il suo paese ha fatto per questi Giochi Olimpici e dell’immagine che ha dato al mondo. When came Great Britain’s time, we did it right.
Dal lato sportivo, vanno in archivio dei Giochi molto spettacolari, non solo perché si sono svolti negli avveniristici e splendidi impianti costruiti dagli inglesi, ma anche per i risultati e per i personaggi che li hanno ottenuti. Storie affascinanti, come quelle dei cannibali Phelps e Bolt che hanno allungato di un’altra olimpiade la loro leggenda.
Come quelle di tutte le donne che hanno superato i maschi nella conquista delle medaglie nelle grandi realtà sportive quali USA e Cina, o che hanno superato ostacoli ancora più grandi emergendo in paesi e in realtà sociali dove la condizione femminile è ancora problematica, se non drammatica. Un nome su tutti, quello di Sarah Attar, la judoka saudita prima donna della storia qualificata alle olimpiadi per il suo paese. L’eco della standing ovation che ha ricevuto entrando nella Wembley Arena non si spegnerà tanto presto nelle  nostre orecchie.
E poi le storie italiane, quelle di sempre, di ragazzi che per quattro anni lottano e si sacrificano per pochi giorni di notorietà, in un paese dove gli impianti sportivi non esistono quasi più, dove le federazioni servono ormai da anticamera della politica e dove la stampa si ricorda di loro solo per fare del sensazionalismo, e riempire pagine che d’estate sarebbe difficile riempire altrimenti. E il tutto finisce con un ricevimento al Quirinale, poi di nuovo nell’oblio.
Ma loro, i ragazzi, scrivono sempre belle storie, o comunque storie appassionanti, per chi abbia voglia di leggerle veramente. Londra ha segnato il passo d’addio di alcune grandi signore dello sport italiano, Valentina
Vezzali, Josefa Idem e forse anche Federica Pellegrini. Londra ha visto le lacrime di gioia di squadre che si sono ritrovate, e quelle di rabbia di altre che si sono perse.
Londra ha visto medaglie italiane conquistate all’ultima freccia, e pugni inglesi immaginari contro volti italiani che avevano già l’espressione d’orgoglio per un nuovo trionfo. Londra ha visto una ragazza che si è allenata a sparare sotto il terremoto, e il cui braccio non ha mai tremato. E altri ragazzi che invece si sono persi perché non ricordano più cosa vuol dire soffrire. E’ la legge dello sport, quattro anni sono tanti e lasciano il segno, finché si trova qualcuno che ha più fame, come una volta l’avevamo noi.
E’ il momento di chiudere, di mettere tutto nel cassetto dei ricordi. Ma non prima di aver fatto un augurio speciale ad Alex Schwazer: che quello che è successo sia stato davvero l’inizio del suo sogno più grande, quello a cui lui stesso ha detto di aspirare di più. Una vita normale. Arrivederci a Rio de Janeiro alla gioventù di tutto il mondo, e anche a chi avrà voglia di rimanere giovane.

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