mercoledì 14 settembre 2016

Dio ti vede, Obama no



Le dichiarazioni dell’ambasciatore americano a Roma circa le conseguenze per gli italiani di una vittoria del NO al prossimo referendum sulle riforme costituzionali sembrano fatte apposta per rinfocolare vecchie polemiche e per rimettere sale su vecchie ferite non rimarginate.
John Philips, ambasciatore americano a Roma
A due mesi dalla scadenza del suo mandato, Barack Obama non smentisce la pessima impronta data alla sua amministrazione esponendosi di nuovo con prese di posizione che oltre ad essere impopolari comunque e da qualunque parte le si valutino è lecito dubitare che siano per lo meno produttive. Per gli stessi Stati Uniti e per il resto del mondo.
Dopo otto anni di amministrazione Obama, sarebbe facile fare il conto degli amici persi e delle posizioni di vantaggio non mantenute per tutti quei paesi, non solo gli U.S.A. che comunque tra due mesi hanno l’occasione di voltare comunque pagina, che fanno capo al Trattato del Nord Atlantico stipulato nel 1949. A tutt’oggi l’unica organizzazione effettiva – molto più in ogni caso delle Nazioni Unite – che abbia trattenuto il mondo dal precipitare più volte in un nuovo baratro.
L’ambasciatore Philips parla per conto di un datore di lavoro in scadenza. Tra due mesi la politica estera americana potrebbe essere completamente ripensata, rielaborata. Sicuramente nel caso della vittoria di Donald Trump, ma anche probabilmente anche in quello di un successo di Hillary Clinton, che non può non essersi resa conto di certi guasti e di tante sconfitte ottenuti e messi in fila da colui che le passerebbe il testimone e nella cui amministrazione lei stessa ha lavorato.
Philips con Renzi, ai tempi in cui era Sindaco di Firenze
John Philips quindi è un burocrate con l’istruzione di lasciar partire un ultimo colpo di coda. Le reazioni suscitate in casa nostra da quel suo minacciare un rischio per gli investimenti stranieri in Italia, comunque, non sono meno fuori luogo. Sono due mondi, due schieramenti invecchiati che si confrontano su un palcoscenico che nel frattempo gli operai stanno smontando, per allestire nuove scenografie.
Lo scenario che tenta di non essere abbattuto è quello determinato da abitudini culturali maturate in settant’anni e più. Da una parte gli U.S.A., emersi vincitori dalla Seconda Guerra Mondiale e capofila dello schieramento che poco dopo si apprestava in Occidente a combattere la Terza. La grande vittoria e la grande responsabilità catapultarono un paese che forse in quanto a maturità politica e a consapevolezza strategica non aveva fatto ancora tutto il necessario percorso su quel palcoscenico dove invece sarebbe stata richiesta abilità pari alle risorse che  aveva da mettere in campo.
In altre parole, le intenzioni erano buone, il fine giustificava i mezzi più che abbondantemente, ma le amministrazioni U.S.A. che si successero dal 1949 in poi scontarono inevitabilmente una certa rozzezza psicologica e culturale e una rigidezza eccessiva di stampo puritano con le quali più di una volta mortificarono e depressero senza motivo alleati almeno in maggioranza ben disposti nei confronti loro e dei valori che difendevano.
Dall’altro canto, l’approccio comunista ai problemi del dopoguerra costituì una lente di distorsione determinante per tutta quella parte di opinione pubblica che ereditò il 25 aprile del 1945 dal fascismo l’odio ed il revanchismo frustrato nei confronti del mondo anglosassone. Come abbiamo scritto più volte, molti cambiarono soltanto la camicia da nera a rossa, mentre il bagaglio culturale post fascista e proto comunista rimase lo stesso.
Così, gli Stati uniti d’America divennero una specie di Grande Satana nostrano a prescindere per tutti coloro che non si posizionavano, diciamo così, politicamente nell’area di governo. Ed i paesi alleati divennero in questo immaginario tanti Cile, i loro governi tanti Pinochet, noialtri tanti grandi e piccoli Salvador Allende.
De Gasperi parla a Parigi prima della firma del trattato di pace, 1947
Non c’era possibilità di dialogo tra questi schieramenti. Solo, prima o poi, di superamento. Ci sta provando faticosamente la Terza Repubblica di cui si discute, spesso impropriamente, anche al prossimo referendum, a superare questo passato che ormai cammina come un morto. Con molte battute d’arresto. Ad un John Philips che agita lo spauracchio degli investimenti stranieri in fuga così come settant’anni fa i suoi predecessori parlavano di bambini mangiati dai comunisti, rispondono personaggi altrettanto improbabili.
Luigi Di Maio, come se in questi giorni non ne avesse abbastanza in quel di Roma, fa ridere il web paragonando Matteo Renzi ad Augusto Pinochet e collocando il tutto per di più non in Cile ma in Venezuela. Come dire, so tutto anche se non ho studiato nulla. Anche se non ero neanche nato.
Poi c’è Pierluigi Bersani, che ormai non è più nemmeno veterocomunista, ma soltanto vetero - se stesso. Sbotta come Peppone di Guareschi: «Per chi ci prendono?»
La risposta che salirebbe alle labbra sarebbe poco gratificante, per lui e per noi tutti: per dei cretini che siamo, a mantenere una classe politica come questa.
Proviamo invece una risposta più articolata, al vecchio arnese della Cosa Rossa e ai tanti che brancolano nel buio ideologico delle varie zone d’ombra che la crisi del sistema dei partiti ha lasciato dietro di sé.
Hillary Clinton e Barack Obama
Abbiamo seppellito pochi giorni fa Ennio Di Nolfo. Il professore emerito non ci manca mai tanto quanto in questi casi. Quando ci avrebbe spiegato – così come faceva tanti anni fa allorché da ragazzi frequentavamo le sue splendide lezioni – che un sistema si chiama appunto sistema perché tutte le sue componenti, dalle più grosse, importanti e potenti a quelle apparentemente meno significative e influenti, dipendono l’una dall’altra senza possibilità di sottrarsi a questa interdipendenza. A pena del caos, irreparabile.
Perché un sistema internazionale funzioni, ci vuole la superpotenza (gli U.S.A.) ma ci vuole anche la periferia dell’Impero (l’Italia, in questo caso). E il sistema deve funzionare in qualche misura e modo per tutte e due. Ciò lascia spazio tra l’altro per una componente di secondo piano quale può essere il nostro paese per avere dei margini di tornaconto su cui giocare, degli obbiettivi grandi o piccoli da conseguire. Qualcosa da portare a casa, insomma.
A condizione di avere una classe politica adeguata. Si può e si deve convenire che negli ultimi dieci anni, per stare all’attualità, una simile classe politica non ce l’hanno avuta gli U.S.A. ma non ce l’abbiamo avuta soprattutto noi.
Siamo il paese che ha perso ignominiosamente l’ultima guerra combattuta sul suolo europeo, risolta da una potenza extracontinentale che come prezzo per averci liberati da noi stessi ha preteso (tutto sommato accontentandosi di un buon mercato) porzioni di territorio che una volta era nazionale, nostro, e porzioni della nostra sovranità politica. Quello eravamo e quello siamo rimasti.
Luigi Di Maio
Alla luce di questa considerazione storica, di questo dato incontrovertibile, si possono liquidare senza approfondimento tutte le sciocchezze che invece provengono dal centrodestra, da Altero Matteoli, a Renato Brunetta a Maurizio Gasparri e così via. Lasciamo perdere – è il caso di dire -  la Costituzione, che tra l’altro non si sa più bene nemmeno qual è, di sicuro non quella che si riscopre soltanto quando fa comodo.
Non siamo in grado verosimilmente di mutare lo stato di cose, l’assetto politico internazionale. E a ben guardare, è da chiedersi se comunque varrebbe la pena di farlo, viste le alternative a disposizione adesso come settant’anni fa.
Forse vale la pena sopportare le esternazioni del burocrate Philips, che comunque tra due mesi torna a casa sua, senza aggiungere sciocchezze a sciocchezze esacerbando un clima che per motivi storici e caratteriali, anche e soprattutto nostri, è sempre comunque sospeso sopra una fiamma del gas moderata ma costante.
Tra due mesi, comunque vada, si parlerà di altre cose. E chissà che scenario avranno allestito gli operai al lavoro sul palcoscenico, con Bersani, Di Maio, Brunetta, Gasparri, Philips e quant’altri nel mezzo ad intralciarli con le loro sciocchezze ed i loro movimenti scomposti.

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